MILANO

Un Remo Freuler con più gol in canna? Occhio ai confronti: “Dicono che ho sfiorato la cinquantina di gol con l’Atalanta, sommando tutte le competizioni e le partite ufficiali. Almeno 42 li ho fatti di sicuro. Me ne ricordo pure un paio in Mitropa Cup. Ero una mezzala di corsa con un buon piede anche da fermo, giocavo a centrodestra in un reparto a tre. Ora la tattica è più raffinata…”. Marino Magrin, che si occupa della Scuola Calcio del Ranica (“Mi diverto: fino a tre anni fa ero al settore giovanile del Milan. Ho scelto di stare vicino a casa, ma ho il master di Coverciano dal ’98”), abbozza un confronto tra la sua Dea e quella di oggi: “A Bergamo ho indossato la 8, la 9 e la 10, con Nedo Sonetti in A ho giocato più centrale dietro la punta (Pacione e poi Cantarutti, NdR). Gian Piero Gasperini ha dalla sua la qualità, grazie anche agli sforzi societari in sede di calciomercato, il ritmo costante e l’assenza di gelosie anche tra elementi di primo piano”. Colui che davanti ai tifosi dei mitici Anni Ottanta tirava la Bomba e intonò l’inno più famoso di sempre (“Forza Atalanta dai, spingi più forte che puoi”) porta a esempio Ilicic e Zapata: “Il primo ha segnato a Firenze uscendo dalla panchina, idem il secondo a Roma. Grande classe e rendimento, pedine intercambiabili. Il Gasp ha tra le mani uno squadrone”. Il neo sessantenne (13 settembre scorso) nativo di Borso del Grappa – “Ma sono cresciuto a Casoni di Mussolente, provincia di Vicenza: nel trevigiano, però sul confine, ci sono praticamente solo nato” – rivendica comunque alla “sua” Atalanta lo spirito rintracciabile in quella attuale: “Arrivai qui nel 1981, in C1, proveniente da Mantova. Col Montebelluna, dopo i primi calci nella Casonense e il seguito nel Bassano Virtus, con cui chiusi nel ’93, avevo fatto la D. Mai avrei pensato di giocare ai massimi livelli, ma il dirigente Franco Previtali quando firmai mi disse che avevano fiducia in me e che eravamo stati costruiti per vincere. Ottavio Bianchi e poi Nedo Sonetti, che ci prese in B, contribuirono a costruire una mentalità vincente. Corroborata dal capitano fin dalla C Giovanni Vavassori, da Gianpaolo Rossi, da Agostinelli, da Magnocavallo e dai primi stranieri, anzi da Glenn Strömberg, uno che voleva tentarle tutte per vincere anche lontano dal nostro pubblico”. Già, il famoso dodicesimo uomo: “Lo era perfino in C. In Coppa Italia, con la Virescit, pensavano di tenere aperte solo le tribune centrali e alla fine dovettero aprire le curve. 12 mila persone lì, 18-20 mila per tutto il campionato, con punte di alcune migliaia in trasferta, perdendo solo a Trento”. Un legame inscindibile, viscerale: “E riguarda anche lo stadio di Bergamo, perché i tifosi si sentono veramente a casa solo lì – rimarca Magrin -. San Siro è un grande palcoscenico, la Scala del calcio. Ma il legame non può essere lo stesso: è questione di ambiente e di sangue, lo sente per primo chi scende in campo”. La regina delle coppe ha riservato un esordio con scoppola a Zagabria: “Serata storta, insufficiente, con errori multipli di più giocatori. Ritmo e mentalità fuori dall’Italia sono un altro mondo – spiega Marino -. Nella ripresa, però, un paio di gol Zapata e Pasalic avrebbero potuto farli. Nessuno ha ammainato bandiera. Non si è rinunciato a fare calcio”. E con lo Shakhtar? “Non esistono sfide impossibili. Gli ucraini le hanno prese dal Manchester City che è fuori classifica, troppo forte per insidiarne il primo posto. Qualunque presidente del passato atalantino avrebbe messo la firma per un’esperienza in Champions, nessuno ci avrebbe mai pensato negli anni duri delle salvezze: bisogna andare avanti con fiducia e senza troppi calcoli. Gasperini muove meccanismi consolidati, con la dirigenza e la presidenza Percassi il connubio è perfetto: succede quando riesci a farti prendere chi desideri e inserisci tutti nel progetto tecnico facendoli migliorare”.
Dal presente al passato, quando a goleare era spesso un centrocampista come lui, il veneto razza Monte Grappa diventato bergamasco per scelta: “Mi pare 38 nei soli campionati e 13 in B nell’annata della promozione, 2 meno di Marco Pacione che grazie a due miei assist finì capocannoniere. Ricordo il gol di Carlo Osti, di testa, su punizione battuta da me, nell’1-1 con l’Inter al ritorno in serie A: per loro segnò Muraro, 43 mila spettatori e passa che credo siano ancora il record assoluto. Ricordo anche la punizione segnata a Terraneo del Milan che significò salvezza a due giornate dalla fine. Per non parlare del gol alla Juve dalla bandierina… Con Sonetti non perdemmo per 23 gare di fila”. Se il nerazzurro di adesso ha orizzonti europei, non è che 35 anni fa fossero così ristretti: “Eravamo una matricola, ma forse se ci avessimo creduto di più avremmo centrato la qualificazione alla Coppa Uefa. Non è che il gioco del pallone sia poi così cambiato, nonostante l’affinamento dei moduli: ai miei tempi il modello per cercare qualcosa di nuovo era l’Olanda di Cruijff, noi a tratti pur col libero staccato facevamo il 4-3-3. Anche in C abbinavamo qualità a quantità, coi vari Foscarini e Mutti. C’era Roberto Donadoni. Giorgio Magnocavallo, nominalmente terzino sinistro, si sganciava all’ala procurandoci rigori a non finire”. Il Magrin osservatore disincantato del 2019 ha forse un solo rimpianto: “Quando passai alla Juve, nel 1987, indossai il numero 8, mai la 10 di Platini, la cui epoca d’oro era appena finita col ritiro. La 10 era di Gigi De Agostini. Segnai all’Inter e nello spogliatoio i compagni chiesero ‘finalmente il 10 per il Magro’. Il caso volle che mi infortunassi al quadricipite la settimana dopo… Stetti fuori 6 mesi”. A cavallo tra Rino Marchesi e Dino Zoff: “Il mio indirizzo e-mail è maplama@libero.it. Me l’ha creato mio figlio Michele, è l’acronimo di Magrin-Platini-Maradona. Serve aggiungere altro?”, chiude ridendo quello che tirava la Bomba e avrebbe voluto il 10 stabile dietro la schiena come i Big che ammirava. Eppure era ed è un Campione con la C maiuscola anche lui.

Simone Fornoni