Sapete, ho letto spesso e da più parti, che “eravamo felici ma non lo sapevamo”.
Eh no.
Io lo sapevo, eccome se lo sapevo.
E mica perché l’Atalanta era la squadra più forte di tutte, anche se certamente contribuiva al mio morale di tifoso.
Io ricordo ogni istante di quel 19 febbraio, dipinto più volte da me, in tempi non sospetti, come il momento più alto della nostra vita da tifosi.
Ricordo il nostro pullman doppio, pronto a partire dal nostro paesello.
L’elettricità nei nostri occhi.
Sembrava di vivere in un film, se ripenso a quei momenti mi sembra di sentire una colonna sonora che incalzava in sottofondo, e che ci spingeva verso un trionfo certo.
Quella sera eravamo felici.
Ricordo la coda in autostrada, e quelli che scendevano a fare pipì tra le nostre risate.
Ricordo il profumo del panino con la salamella mangiata con papà, con le luci di San Siro a far da cornice.
Ricordo la solita puzza di urina dei cessi del Meazza, che stranamente non mi infastidiva.
Ricordo il mio seggiolino e il verde del prato che mi abbagliava, nonostante fosse un po’ rovinato dalle tante gare.
Ricordo il brusio di gioia in sottofondo, e il viso illuminato di ognuno di noi.
Ricordo il dialogo col mio amico Antonio Bellabona, una persona meravigliosa che l’Atalanta mi ha fatto conoscere prima virtualmente e poi fisicamente.
Lui è una sorta di supereroe per me, lotta da anni contro un mostro che è più grande di tutti noi, ma lo affronta a viso aperto, come fosse l’Atalanta.
E non molla, proprio come l’Atalanta, pur avendo la consapevolezza di essere mortale.
Ed è grazie a questa forza che si diventa immortali.
Proprio come la Dea.
Quella sera eravamo maledettamente felici.
Ricordo gli abbracci veri.
Ricordo che, al 4-0 di Hateboer, un uomo dietro di me ha urlato “Pagnooooo”, e ci siamo abbracciati.
Senza conoscerci.
Non so se quella sera ci siamo contagiati.
Ma c’eravamo ancora tutti, e non conosco nessuno che non vorrebbe esserci stato.
Anche se dopo quella sera abbiamo solo pensato a sopravvivere, e a piangere chi se n’è andato da solo.
Chi non vive da queste parti non può capire quello che veramente si è vissuto, e che ancora si vive.
Ecco, se non posso tornare quello del 19 febbraio 2020, il calcio a me non interessa davvero.
Non è retorica, chi mi conosce sa che vivo di pane, famiglia, lavoro e Atalanta.
Lo so che si deve ripartire.
Lo so che il calcio non è solo uno sport.
Lo so che tutto il mondo che gravita attorno al calcio – e non parlo degli strapagati- fa mangiare una marea di persone come me, che hanno diritto di portare a casa il pane ai figli.
Ma io voglio tornare ad essere quello di quella sera.
Con tutti i miei amici.
Li voglio poter abbracciare.
Voglio ridere.
E voglio piangere solo di gioia.
Sarò il primo a rientrare allo stadio quando si potrà, certamente con la pelle d’oca e gli occhi lucidi.
Certamente mano nella mano con il mio papà, come faccio da 35 anni ininterrottamente.
Ma la foto che state guardando deve tornare ad essere a colori.
Altrimenti, tenetevi il vostro calcio.
In fede,
Stefano Pagno Pagnoncelli