Iniziamo la pubblicazione di una nuova rubrica, “Figurine”, omaggio non accademico né nozionistico a una serie di calciatori, allenatori, trofei, o squadre rimasti per vari motivi in secondo piano.Nei vecchi 45 giri sarebbero stati i “B-Sides”, i lati B rispetto alle canzoni più famose. Eppure sono stati personaggi e situazioni comunque centrali in un certo calcio, fatto spesso ancora di numeri fissi sulle magliette e meno invaso dalle televisioni, dalle partite-spezzatino, dal business globale.Nessuna nostalgia, solo il giusto tributo a un contesto nel quale tanti di noi sono cresciuti, un vero e proprio romanzo di formazione tramite, appunto, figurine.Valerij Lobanovskij
Forse era il più forte di tutti, o almeno così dicevano.
Sicuramente più talentuoso dello “Zar” Zavarov, suo compagno di squadra e di nazionale.
Era probabilmente l’unica eccezione fatta di classe pura e adamantina in una squadra di robot programmati comunque per vincere e forgiati nel fisico e nello spirito da un’Idea, quella di primeggiare nel mondo per il proletariato e i popoli oppressi.
Centrocampista centrale, “mezzala” in un tempo lontano dove le ripartenze erano contropiedi e gli esterni bassi erano terzini.
Nato nel 1963 a Kiev, della stessa “covata” sportiva ucraina che vede come massimo esponente l’immenso Sergej Bubka (dominatore pressoché totale del salto con l’asta dal 1983 al 1997, 35 record mondiali ma solo un oro olimpico vinto), figlio di una ricerca ossessiva della supremazia sovietica in tutti i campi, viene cresciuto – o meglio dire allevato – nelle giovanili della Dinamo Kiev, squadra che dagli anni ’70 domina il campionato sovietico e vince anche in Europa, guidata sapientemente dal colonnello Valerij Lobanovskij.
La squadra del ministero dell’Interno, nata sulla scorta delle “consorelle” russa e georgiana (Dinamo Mosca e Dinamo Tiblisi), innova completamente il modo di giocare al pallone nell’Unione Sovietica ma soprattutto cambia radicalmente il modo di concepire il calcio: preparazione fisica feroce e durissima (addirittura fu ingaggiato come preparatore Petrowski, il “mago” dell’atletica leggera) e un nuovo concetto di squadra che subordina e quasi annulla il talento individuale per metterlo al completo servizio del collettivo, trovando per il ventennio 1969 – 1988 nel centroavanti Blochin un terminale offensivo spietato, tanto da fargli meritare il Pallone D’Oro 1975 dopo la vittoria della Coppa delle Coppe.
In un contesto così rigoroso ed esasperato il giovane Alexej (o Oleksij, la translitterazione dal cirillico e il doppio utilizzo, all’epoca, del russo e dell’ucraino non ci aiuta) viene inserito gradualmente in un sistema perfetto ed armonico, dove le “cure” del Colonnello fungevano da modello anche per le squadre giovanili: se ora parliamo di “modello Barcellona” e ammiriamo la sua cantera che fornisce ogni anno giovani già pronti anche tatticamente per la prima squadra non dobbiamo scordare che una sincronizzazione così accurata fra i vari livelli di un club è frutto del lavoro di Lobanovski.
Così, diciottenne, è il turno di Mikhailichenko esordire in prima squadra: le prime stagioni lo vedono onesta riserva di campioni più affermati (conquisterà da comprimario la Coppa delle Coppe 85-86 a spese dei colchoneros dell’Atletico Madrid) per arrivare poi all’affermazione come elemento imprescindibile del centrocampo della Dinamo.
Conquista la nazionale (della quale i giocatori della Dinamo da anni costituiscono l’ossatura, portando 8 titolari su 11 ai mondiali di Spagna 82) e si inizia ad imporre agli occhi degli osservatori internazionali: è titolare nella nazionale allenata dal Colonnello negli Europei tedeschi del 1988 e all’esordio nella competizione i sovietici sorprendono gli strafavoriti “orange” di Gullit e Van Basten, pareggiando 1-1 nella partita successiva del girone con l’Eire e regolando infine l’Inghilterra con un 3-1 che vedrà proprio Mikhailichenko fra i marcatori del match.
In semifinale il biondo Alexej è ancora titolare e l’URSS con un 2-0 perentorio schianta l’Italia di Vicini.
E’ finale, dove però l’Olanda di vendicherà della sconfitta nella prima partita infliggendo ai sovietici un 2 a 0 con gol – manco a dirlo – di Ruud Gullit e Marco Van Basten che porteranno i Tulipani sul tetto d’Europa per la prima volta, unica vittoria eccellente per gli Oranje.
Amara delusione per la squadra di Lobanovskij, che si riscatterà parzialmente, in autunno, con la vittoria delle Olimpiadi di Seul (quelle in cui l’Italia rimediò la storica figuraccia del 4-0 contro lo Zambia) dove Mikhailichenko sarà protagonista assoluto con 5 gol segnati e le stimmate del campione.
All’epoca era ancora solida la Cortina di Ferro ed era pressoché impossibile per i calciatori dell’Est “tradire la causa” e accasarsi in un club occidentale ma le prestazioni di Mikhailichenko fanno gola a molti anche nel corrotto mondo capitalista: alla fine, complice la caduta del Muro di Berlino e la Perestrojka gorbacioviana, a spuntarla un po’ a sorpresa è la Sampdoria, che mette sotto contratto Mikhailichenko nella stagione 90-91, cambiando 6,5 miliardi di lire in rubli per portarlo a Bogliasco.
I blucerchiati si erano affacciati da poco al calcio che conta, potendo contare su una squadra compatta dentro e fuori dal campo: quell’anno vinceranno il loro primo – e unico – titolo italiano, ultima “piccola” del nostro calcio a cucirsi sulla maglia il tricolore.
Era la Samp di Vialli e Mancini, di Pagliuca e Cerezo, di Lombardo e dei vari Salsano, Pari, Katanec, gran gruppo dentro e fuori: proprio la timidezza e la difficoltà ad inserirsi nell’ambiente costarono a Mikhailichenko un’annata in chiaroscuro, dove il suo talento non riuscì a fare breccia in maniera determinante in una squadra comunque completa tecnicamente.
Eppure i piedi erano deliziosi e sotto quei capelli biondi c’era un accumulo di fosforo come poche volte abbiamo visto in Italia. Certo, il passo era un po’ lento ma ampiamente compensato da una tecnica eccellente e da un senso tattico frutto degli allenamenti del Colonnello.
24 presenze e 3 reti furono il contributo del centrocampista ucraino alla conquista del tricolore per la seconda squadra di Genova, giusto il compitino e nulla più.
Un anno solo, toccata e fuga, nell’orgia di teste biondo platino dei festeggiamenti post scudetto, per poi chiedere di cambiare aria.
Niente, il carattere chiuso e introverso e la sua mentalità troppo votata al lavoro e al sacrificio (oltre alle difficoltà linguistiche) mal conciliavano con lo spirito goliardico e gaudente dei Mantovani Boys, Mikhailichenko ha bisogno di cambiare aria e si accasa 2000 km più a nord, a Glasgow, sponda Rangers.
A Ibrox Park ritorna quasi ad essere il centrocampista che aveva fatto innamorare mezzo mondo, prende possesso delle chiavi del centrocampo e porta i protestanti di Glasgow a vincere 5 campionati di fila.
Certo, il campionato scozzese è ben altra cosa rispetto alla Serie A, i ritmi sono più lenti, le squadre che possono competere per la vittoria del titolo sono solo due (i Rangers, appunto, e i Bhoys del Celtic, squadra cattolica), ma comunque in 15 anni di carriera Mikhailichenko mette nel suo palmarès 1 oro olimpico, 1 argento agli Europei, 9 campionati nazionali, una coppa delle Coppe e una manciata di coppe nazionali, per poi continuare la carriera nello sport come secondo di Lobanovskij nella Dinamo Kiev fino alla morte di quest’ultimo (avvenuta nel 2002) e prendere in mano la guida della sua squadra del cuore per un paio di anni, fino ad arrivare a condurre la nazionale U21 e quella maggiore del suo Paese, sempre con il rimpianto di essersi dimostrato, nel campionato italiano, un talento incompiuto.