Bergamo
– “Le Olimpiadi del 1936? Un evento di drammatica modernità e attualità. Un momento storico di incredibile tensione, segnato dalla mancanza di ideali e dalla catastrofe in cui il mondo stava colpevolmente precipitando. Un evento che, come spiega la regista dello spettacolo Caterina Spadaro, segna un buco nella storia, perché la Storia stava accadendo e attorno nessuno se ne accorgeva. O, se lo faceva, sottovalutava il momento, come hanno fatto tutti i governi del mondo. Diventa quasi automatico fare un parallelo con il periodo confuso e difficile che il mondo sta vivendo oggi”. Parla con l’entusiasmo che abbiamo imparato a conoscere con i suoi racconti su Sky dei protagonisti del calcio, Federico Buffa, di “Le Olimpiadi del 1936”, lo spettacolo che sta portando in giro dall’inizio di quest’anno e che farà tappa a Bergamo il prossimo 19 dicembre. “E’ anche per questo motivo che ho scelto di raccontare questa epocale Olimpiade, che ha rappresentato uno spartiacque nella Storia non solo dello sport, ma anche del mondo intero. I tedeschi la organizzarono per rappresentare Berlino e se stessi nel modo più esaltante per loro: doveva essere il trionfo della razza ariana, ma anche un modo per prendere tempo, e continuare così a strangolare l’Europa in una stretta mortale che di lì a poco sarebbe sfociata nella Seconda Guerra Mondiale. L’Olimpiade fu una perfetta e perfida operazione di propaganda creata da quel diabolico personaggio che fu Goebbels, e studiando il contesto che l’ha circondata ho scoperto che, in tutto ciò che ha portato alla guerra, nessuno ne è uscito vergine: basti pensare alla quantità di filonazisti che c’erano negli Usa, tra cui Henry Ford, o lo stesso vicepresidente del Comitato Olimpico. Si trattò anche di un vero spartiacque della modernità: basti pensare alle splendide riprese della grande regista Leni Riefenstahl, o al fatto che furono Olimpiadi trasmesse in diretta radio e tv, e forse le meglio organizzate di sempre. Fu la prima volta del basket, lo sport che più amo ai Giochi (e anche del baseball, anche se solo a livello dimostrativo), introdotto solo per fare un favore agli Stati Uniti ed evitare il loro boicottaggio, ma che non aveva nemmeno un campo ufficiale per le partite. Insomma, fu un evento incredibilmente complesso e sfaccettato che abbiamo provato a raccontare nella sua multiformità”.
Lei interpreta Wolfgang Fürstner, il capitano della Wehrmacht comandante del villaggio olimpico. Ma c’è spazio anche per i monologhi che raccontano le vicende di alcuni protagonisti di quell’Olimpiade. “Questa è stata una scelta, e un tocco di grande bravura, dei registi Emiliano Russo e Caterina Spadaro: giocare su un doppio registro, uno diciamo così in “diretta” dal 1936, e uno, quello appunto dei monologhi, che arriva ex-post, in cui i protagonisti raccontano, con il senno di poi, quello che accadde. E sono grandi protagonisti, come Jesse Owens, il grande atleta di colore che vinse tre medaglie d’oro in quell’edizione, e Sohn Kee-Chung, atleta coreano costretto a correre sotto la bandiera del Giappone. E’ una scelta che può risultare anche difficile, all’inizio, per lo spettatore, ma che serve, e funziona, per raccontare, saltando avanti e indietro nella Storia, proprio la complessità di un evento di tale respiro”.
Il risultato è quella che lei chiama una narrazione civile. “E’ il nostro intento, la nostra ambizione. Narrare come, in un mondo dove la tragicità della guerra non risparmiava nessuno, le storie individuali testimoniassero il riscatto dell’essere umano. Tanto più in un’Olimpiade particolare come questa, dove, a dispetto di una volontà di affermazione della razza ariana, ci fu invece un’esplosione di dialogo e di multiculturalità come mai prima. Spesso le storie umane dello sport sono emblematiche del recupero dei più autentici valori umani, il coraggio, la solidarietà, l’amicizia. E, paradossalmente, proprio in quei Giochi così connotati politicamente, tali valori di fratellanza emersero. Anche questa, credo, è una speranza che si può legare all’oggi”.
Il suo modo di fare giornalismo sportivo ha uno stile inconfondibile e riconoscibile, che pone molto l’accento sul tono epico. Come è nato questo suo modo di raccontare, che la rende secondo il critico Aldo Grasso il miglior story-teller della televisione? “Ho imparato tutto dalla trasmissione “Passepartout”, che il critico d’arte Philippe Daverio conduceva su RaiTre. Ho guardato e riguardato tutte le puntate di quel bellissimo programma, e mi ci sono ispirato per lo stile narrativo. Arte e sport sono mondi diversi, ovvio, ma, come faceva Daverio, anche io cerco di legare le vicende individuali al contesto storico e sociale in cui si svolgono. E poi il profilo umano, che è determinante, e l’attenzione alla contemplazione del passato, lontano o vicino che sia, per comprendere il presente. Una cosa che, purtroppo, oggi manca e non soltanto al giornalismo”.
La sua prima passione è il basket, e da lì ha iniziato la sua attività di giornalista. C’è un’epica diversa nel gioco in sé, e quindi nel modo di raccontarlo, rispetto a tutti gli altri sport? “Decisamente. E’ la più pura rappresentazione dell’atletismo giocato, ed è lo sport per antonomasia afroamericano (se pensi al football, è uno sport multietnico, sì, ma i grandi campioni, i grandi quarterback sono quasi sempre bianchi), e racconta in modo insuperabile il carattere di una minoranza che ha un così forte impatto sulla vita di tutta la società. Vi è così strettamente legato da possedere un suo ritmo interiore, altrettanto caratteristico del ritmo della musica afroamericana, dalle sue origini soul-blues fino all’hip-hop. Possiede un suo carattere epico totalmente differente da quello del calcio. E sia io che Flavio Tranquillo, eccellente raccontatore del basket attuale, abbiamo imparato a narrarlo da un grande maestro, Brando Giordani”.
Il suo stile è così riconoscibile che è oggetto di parodie, in televisione e in Rete: le ha viste? “Certo, e conosco personalmente gli Autogol, i ragazzi che le realizzano. Verranno alla tappa di Pavia dello spettacolo. Sono simpaticissimi, e la loro caricatura è canagliesca e molto spiritosa”.
Raccontare lo sport oggi è difficile: se si pensa alla tv, lo stile-Sky ha imposto un modo senz’altro nuovo, di raccontare le partite di calcio, molto enfatico e “ad alto volume”, forse anche troppo. Nella carta stampata, a fronte di bellissime realtà come “Rivista Undici”, assistiamo invece a un crollo della qualità anche nei quotidiani storici. La sua opinione? “Domanda complessa. Per quanto riguarda lo stile-Sky, forse la domanda andrebbe girata a un quindicenne, che assiste al racconto del calcio che fa oggi Sky e conosce poco di ciò che c’era prima: darebbe una risposta più interessante di quella che posso dare io, per capire se uno stile di questo genere sia innovativo o “faccia bene” a chi ama il calcio. Per quanto riguarda la carta stampata sono d’accordo, e credo che l’intento di pubblicazioni come “Rivista Undici”, di cui conosco benissimo il direttore Giuseppe De Bellis, sia esattamente quello di restituire dignità alla stampa sportiva, in un momento in cui si esprime con un metalinguaggio che troppo spesso non è all’altezza di quello di grandi firme del passato come quella di Gianni Brera”.
“Le Olimpiadi del 1936” sta andando benissimo. Ci ha preso gusto? Farà altro a teatro? “Lo spettacolo andrà in tournée anche l’anno prossimo. Io sarò impegnato anche a scrivere, questa volta, perché finora, nelle storie raccontate in tivù, ho fondamentalmente improvvisato, perché poi il programma veniva confezionato insieme ad altre persone”.
Per finire, lei è tifoso milanista. Qual è il Milan cui è più legato, quello che vorrebbe in una puntata di “Buffa racconta”? “Sicuramente il Milan della finale di Coppa dei Campioni di Barcellona, quella in cui battemmo per 4-0 lo Steaua Bucarest. Il mio giocatore preferito in assoluto è Dejan Savicevic, che in quella squadra non giocava, però quel Milan di Sacchi ha espresso un calcio inusitato, uno dei migliori che l’Italia abbia mai proposto, e che rimarrà nella storia di questo gioco. Sacchi, in epoche in cui il calcio europeo non lo si vedeva in televisione, da rappresentante di scarpe girava l’Europa e prendeva appunti, assimilando schemi e tattiche della scuole olandese e belga, e le applicava al gioco italiano, creando un tipo di calcio sicuramente oneroso e dispendioso per gli atleti, che non poteva durare in eterno, ma che ha creato una visione e un modo di intendere il gioco che ha fatto scuola e, appunto, rimarrà negli annali”.
Manuel Lieta
(foto www.teatrostabiletorino.it)