Mentre mi affanno tra zone rosse, arancioni e grigie, delibere su malati da ospitare nelle case di riposo, ospedali chiusi e poi riaperti, numeri veri e cifre false, mi accorgo di essermi dimenticato che il mio lavoro ha senso se racconto le persone, le loro bellissime storie.
Mercoledì sera ho letto di Emiliano, appena un trafiletto, una decina di righe, grafico e fotografo, trentasei anni, un ragazzo, ucciso da questa malattia dopo aver lottato al San Gerardo di Monza. Erano le dieci, ero preso, alla caccia di un medico che non mi rispondeva, ovviamente per sapere quanti decessi ci fossero stati in uno dei tanti ospizi della Bergamasca. Emi, come lo chiamava chi lo conosceva, è passato leggero tra i miei mille pensieri del momento, sottovoce, senza disturbare le mie inchieste, lui e moltissimi altri, i visi che uniti insieme fanno il meraviglioso quadro di questa terribile strage.
Io non so se quelli dei telefonini hanno trovato il modo di sentire quello di cui abbiamo bisogno, ma oggi ero al Carrefour, come ogni volta aspettando il mio turno. Cazzeggiavo su Facebook e mi è passata la sua pagina, Emiliano Perani, di Casnigo, trentatre amici in comune, due che io sento stracari, Alice, splendida cuoca, e Kevin, bravissimo collaboratore, ma soprattutto pessimo e autoironico portiere del martedì.
Così ho letto di Emi, che faceva foto bellissime, le ultime dal Sud America, che stava a immaginarsi un lungo viaggio in Medio Oriente, che era contro la guerra e contro le armi, che era contro il razzismo perché non porta mai a niente di buono, che odiava i confini pur amando la sua gente, quella della Val Seriana.
Emi era una persona bella, bella come mi sento io nei giorni in cui penso che quello che faccio serva anche agli altri, quelli che ho vicino, ma pure chi mi sta lontano.
Prima di sto casino Emiliano portava in giro per la Bergamasca il suo documentario, diciasettemila chilometri con lo zaino in spalla tra Argentina, Cile, Bolivia ed Ecuador, qualcosa che ho sempre sognato di fare anch’io. Lui l’aveva fatto, con Nadia, che chissà come starà adesso, in quali meandri le sta toccando ora di sopravvivere.
Emi era giovane e bello, ma bello bello, divertente, allegro, impegnato per un mondo migliore, non era un numero e poi chi lo è. Si è ammalato ai primi di marzo, mentre disegnava la copertina dell’ultimo cd del gruppo dei suoi amici, mentre si faceva le stesse mie domande, quelle di tutti, sulla mancata zona rossa tra Nembro e Albino, il posto del suo cuore. Raccontava del Monte Pora, dove andava a camminare, della Val Seriana “che forse un giorno si sveglierà”, smettendo, una volta per tutte, di avere “bergamaschi che pensano che andare in piazza per i nostri diritti sia solo una perdita di tempo”.
Il mio vicino di casa, il famoso Pier, dice in cortile che sono un giornalista che conta. Anche se non è vero, per una volta vorrei fosse così, oggi per Emi, domani per tutti gli altri, che restassero tra le mie parole, lette adesso da un milione di persone, aiutandoci a cambiare in meglio questo luogo che amiamo perché ha donne e uomini straordinari, che sono stati condannati a morte.
Matteo Bonfanti