di Matteo Bonfanti

C’è che ci sto provando davvero a tirarmi insieme, a diventare normale, un bravo tipo che evita cazzate in serie per il suo bene e per quello di chi lo circonda. Da diciotto giorni ho smesso con le birrette, vado avanti a tisane al melograno, una alle sei, l’altra alle due di notte, limito le sigarette mangiando cicche “Daygum White Protect” che mi sbiancano i denti un tempo giallognoli, vado a camminare in Città Alta, non faccio falli cattivi quando gioco a Orio al Serio, è tre settimane che non rutto manco se mi bevo una bottiglia di Sprite, scoreggio rarissimamente e mai addosso ai colleghi, mi faccio la doccia ogni mattina ed è un record, che è da quando ero un pupino che non ero così pulito, profumo di Neutro Roberts a metri di distanza, mi annuso le ascelle e ne vado discretamente fiero. Eppure la filosofia punk abbracciata in seconda media, dopo aver ascoltato per caso per radio Anarchy in the Uk, non mi va via. Non c’è una minchia da fare, non c’è rimedio, che ne so magari uno shampoo di quelli che sterminano qualsiasi cosa ci sia nella testa, pidocchi e vecchi pensieri molesti.
Non sono d’accordo con quello che la maggioranza ritiene giusto, non mi capita, sono un ribelle, lo sento sulla pelle, e mi viene fuori quando meno me l’aspetto, oggi a scuola, convocato dalle insegnanti alle prime luci dell’alba perché mio figlio Zeno e altri tre suoi compagni passavano l’intervallo a sparare palline di cartaigienica imbevute di acqua sui muri del bagno. Profondo sconforto sui visi degli altri genitori coinvolti, sottile godimento nel mio sguardo: Zen, otto anni, che un paio di volte aveva già dimostrato una certa propensione alla rivolta, sta prendendo quella via lì. Si vedrà, almeno per tre decenni si divertirà ad andare in direzione ostinata e contraria. E in un mondo ingiusto da far schifo avrà sempre il mio silenzioso appoggio.
Come ieri sera, che pareva un cagnolino bastonato tanto in classe l’avevano fatto sentire in colpa. L’ho preso da parte, gli ho chiesto il motivo del profondo sconforto nel suo cuore e della mia convocazione mattutina, mi ha spiegato la vicenda e che lui ci era finito dentro per sbaglio, per una sola palla. Gli ho detto che non ci credevo perché noi Bonfanti siamo capipopolo per natura e ho ipotizzato almeno dieci palline lanciate di suo pugno. Ne ha confessate sette, mi ha guardato e mi ha detto: “Ma non mi sgridi?”. Gli ho risposto mettendo sul piatto “Ok computer” dei Radiohead, prendendo un foglio, facendogli degli schemi per spiegargli che le contestazioni si fanno bene, con metodo, dividendosi in due gruppi di fuoco, prendendo a tenaglia il corpo insegnanti, all’improvviso, senza avvertire, seguendo, insomma, il vecchio schema della legione romana. Importantissima pure la rivendicazione, con un comunicato da inviare alla stampa, a noi, a L’Eco, a Bergamonews, al Corriere, “noi le palle le abbiamo lanciate per dire no al precariato che ci aspetta da grandi”. Ero emozionato, ero nei miei soliti viaggi, mi sentivo un po’ come il Che. Zeno mi ha smorzato senza nemmeno parlare, mi guardava quasi fossi un extraterrestre, sicuramente un padre un po’ scemo, poi ci siamo messi a ballare. Di notte si è consultato con Vinicio, suo fratello, la sua personale pietra di paragone. E Vini questa mattina mi ha raccontato che Zen era un po’ preoccupato andassi io dalle insegnanti e non sua mamma, che non è punk, ma tenera, fedele alla linea del vogliamo bene alla nostra Madre Terra e a qualsiasi esserino che ci abita, maestre comprese, affidandoci alla musica reggae e all’ecopsicologia, che non si direbbe, ma sono un sacco simili.
iozenovini Così questa mattina a scuola sono stato muto come un pesce, mi sono sentito le ragioni delle docenti, giuste e dette in modo tranquillo (“devono capire che la scuola è anche loro e non va danneggiata”), ho annuito sedici volte, ho evitato l’elogio alla ribellione che mi frullava nella mia testolina, ho mentito quel paio di volte, ho fatto il serio serissimo con gli altri genitori, ho chiuso la mattinata con un “ok, gliela menerò e gli spiegherò di non farlo più”.
Ma non gli dirò nulla. Perché io nella generazione di Vinicio e Zeno ci spero un casino. A quella prima, che è stata così buona ed educata, che non ha mai alzato la voce manco per sbaglio, non abbiamo dato nulla. Sono tutti ragazzi laureati, spesso in gambissima, intelligenti, svegli, profondi, e fanno i camerieri a tre euro all’ora, ovviamente in nero, oppure a sette lordi nei call center delle compagnie telefoniche finanziate dallo Stato o gli architetti gratis o i giornalisti pagando o sono costretti ad andare a Londra o a Sydney a fare i cuochi, lontani dagli occhi, lontani dal cuore. Non possono sposarsi né avere figli perché chi è passato prima di loro gli ha portato via tutto. Penso, soprattutto, ai sessantottini, che hanno fatto un po’ di bordello in piazza e si sono trovati in tasca una serie di biglietti vincenti di “Win for life”: il contratto indeterminato, a vent’anni, appena diplomati, e nel pubblico, le baby pensioni, le trentacinque ore, le ferie pagate, i mesi di malattia, i due anni di maternità. Cose giuste e doverose, ma che per i ventenni e i trentenni di oggi non esistono più. Ben venga la contestazione, che magari Vinicio e Zeno tra dieci anni passano dalle palline di carta ai sampietrini, l’Italia si accorge di loro e i miei figli si evitano questa vita precaria, che fa venire il mal di stomaco.

(In alto Matteo Bonfanti e il “ribelle” Zeno, che ha scattato ieri le due foto. Sopra i due sono con Vinicio)