“Nel calcio tutti parlano di moduli e numeri, ma la realtà è che in fase di non possesso qualunque squadra tiene nove giocatori dietro la linea della palla”.
Una delle famose frasi, pardon aforismi, ma con la forza di una parabola, di Emiliano Mondonico, che non è facile cancellare dalla mente e dal cuore. Come lui, del resto. Come il personaggio che s’era creato da solo, in tantissimi anni di carriera, reso ancora più solito, monumentale e indimenticabile dal suo spessore di persona. Due anni dalla sua scomparsa, gli ultimi sette trascorsi a fare avanti e indietro da medici e ospedali, e il Mondo ci manca un Mondo. Perché con la sua semplicità e il suo approccio disincantato a un universo dorato ma solo nella patina, ahinoi tendente all’immagine e all’effimero, con l’anima di plastica al pari dei tacchetti delle scarpe da gioco, il Baffo di Rivolta d’Adda ha insegnato a tutti cos’è il professionismo senza prendersi troppo sul serio. Anzi, praticamente mai.
Sarebbe servita maledettamente a tutti noi, in questi tempi bui della pandemia da Coronavirus che ha paralizzato praticamente ogni attività umana, cancellando pure la comoda via di fuga dello sport, la sua capacità innata di ricondurre le cose nella loro dimensione, al loro posto. Sarebbe stato, con la sua filosofia semplice e crudamente disincantata, attaccata alla realtà e non proiettata sulle chimere del presente e del futuro, un comandante in capo ideale per spronarci a resistere e a combattere per tirarcene fuori. Anche senza Instagram e campagne a base di hashtag, lui che aveva nella comunicativa diretta, vis-à-vis, il punto di forza.
“Prenda sul serio il suo lavoro e mai se stesso”, aveva detto al futuro generale Eisenhower uno dei maestri del suo corso ufficiali. Emiliano era proprio così. Non se la tirava ed era qualcuno soprattutto fuori dal campo, dove non disdegnava pranzi, cene e rendez-vous alla buona, con gentile offertorio di salame di sua produzione, al di là dell’impegno sociale a favore degli alcolisti in trattamento, dell’oratorio Sant’Alberto di Lodi dove la sua figura di allenatore quasi quasi si sposò con quella di apostolo, de “La passione di Yara” che lo legò alla Bergamasca fino alla fine dei suoi giorni e di innumerevoli altre iniziative di cui era testimonial.
Il palmarès, per uno abbonato alla periferia dell’impero, da ex grande promessa non mantenuta in quota Torino e Atalanta, un’ala che aveva La Farfalla Gigi Meroni come idolo e i Rolling Stones e i Nomadi come riferimenti musicali per scampare ai ritiri, a conti fatti è impressionante. Semifinali di Coppa delle Coppe contro il Malines nella sua prima stagione nerazzurra con la squadra in serie B, qualificandosi poi alla Coppa Uefa per le due annate successive. Già alla guida di Cremonese e Como con promozioni e salvezza annesse, prima del ritorno a Bergamo allenò i Granata cui aggiunse in bacheca la Coppa Italia nel 1993. Avrebbe poi salvato tre volte l’AlbinoLeffe, due ai playout, e nel mentre riaccompagnato per mano al piano di sopra la Fiorentina del sofferto post Cecchi Gori. Nemmeno 299 panchine atalantine, record societario, sono uno scherzo. Figurarsi la finale della Coccarda persa a pro dei viola nel 1996, prima di chiudere con la Dea retrocedendo due annate più tardi.
Non allenava più dal marzo 2012, ultima stazione Novara, in serie A. Era uno degli opinionisti e dei commentatori più quotati, grazie al suo eloquio saggio e brillante, per non parlare della competenza. Uno degli ultimi Moloch del pallone all’italiana, stile pane e salame, ma non per questo meno sagace. Accanto a Oliviero Bomber Vero Garlini e al cervello Eligio Nicolini, nella sua mitica Atalanta di coppe, mentre si risaliva la categoria, quante volte un marcatore arcigno e spiegato come Costanz(i)o Barcella saliva a sostegno dell’attacco come un Rafa Toloi ante litteram?
Due anni senza Mondo e senza le sue parole ricche di sale, pepe ma anche miele. Avrebbe saputo regalarci quelle più adatte anche in queste tristi circostanze. Sorriso e stretta di mano immediati e garantiti. I fuori microfono erano ancor più indimenticabili, ma non è che si sia mai morso la lingua. E che scorpacciata pantagruelica alla Cascina Brusada, nella sua Rivolta d’Adda, per la penultima delle sue salvezze! Emiliano Mondonico amava il calcio e la vita. Per questo è giusto ricordarlo, al di là delle imprese sportive e della famosa sedia brandita ad Amsterdam che è stampata nella memoria collettiva come la sua presenza carissima. La presenza di uno che poteva tirarsela e non si sarebbe mai sognato di farlo. Solo un piccolo vezzo, la data di nascita (9.3.47) come numero del telefonino al netto del prefisso e degli zero davanti.
Simone Fornoni