C’è stato un tempo, nella seconda metà degli anni quaranta e in tutti gli anni cinquanta dello scorso secolo, in cui Ponte San Pietro è stata fucina di formidabili calciatori che hanno militato per molti anni nei campionati di seria A, B, C. Nomi come quelli di Bernasconi, che ha vestito per due volte la casacca della nazionale; i fratelli Fracassetti o Consonni. Ma se girate per le strade di Ponte e chiedete a qualche passante, magari assicurandovi che abbia il crine imbiancato, chi sia stato il più forte giocatore tutti, ma proprio tutti vi risponderanno con un nome solo, cacofonico e fuori moda: Gepì. Che poi nome non lo è nemmeno, perché è quello che oggi definiremmo come nickname e contraddistingue, senza ombra di fraintendimento il più forte numero 10 della storia del calcio bergamasco. Gepì, Gepì, Gepì, fonema di godimento per masse plebeo-contadine dai ricordi in bianco e nero, rimbalza ancora imperterrito tra lo sconfinato spalto dello Stadio Matteo Legler. Gepì, Gepì, bambini che furono, ora incanutiti gentiluomini con le brache di fustagno hanno attraversato il secolo breve costruendosi col sudore ricordi che sostituissero gli orrori della guerra ispirati da scatti e scarti improvvisi, finte e controfinte del genio sanpietrino delle forme sferiche: Virginio Gepì Ubiali. Gepì, quanto varrebbe oggi, sulle montagne russe del calciomercato? Forse milioni di euro o probabilmente nulla di tutto questo, sì perché con Gepì in squadra avresti un pazzo che crede che il suo unico datore di lavoro sia il pubblico che paga il biglietto e viene allo stadio a vederlo giocare al fùbal.
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