I miei, Marco e Valeria, ci hanno messo al mondo in due. Prima Chiara, che gli è venuta fuori da dio, un fiore, intelligente, in gamba, generosa e bellissimissima, ma bella che più bella non si può, a sette anni come a venti, che all’epoca chi giocava a pallone con me stava fisso a guardarla in tribuna e perdevamo, poi a trenta, a quaranta, ed è una gran figa anche ora che tra poco ne compie cinquanta. Quindi hanno fatto me, che sono così così, che non è un male né un bene, perché a volte è anche meglio starsene lì, dico in quel mezzo, esattamente a metà tra George Clooney e mister Bean, tranquillo in riva al fosso delle feste, a fumare e a sparare cazzate tra i “simpatici, anzi simpaticissimi”, quelli senza il becco di una passera una che si avvicini anche solo per sbaglio.
Mia sorella, appunto Chià, è sempre stata buona con me, onesta, onestissima, e non si è mai discostata dal giudizio estetico delle donne che ho avuto accanto. Dicevano: “Dai, sono felice di passare il sabato con te che mi fai ridere che è solo quello l’importante. Non la bellezza”. A onor del vero tutte tranne due, ragazze con evidenti problemi di cecità, che mi hanno detto in un’occasione, sicure e molto convinte, “Matti, sei davvero molto carino”, ma in entrambi i casi erano parole isolate, di un giorno, il solo in cui non avevano messo in borsa gli occhiali da vista. La volta dopo avevano le lenti e non me l’hanno detto più.
Quindi ieri a Valgreghentino Chiara, che ci vede benissimo, mi ha colpito. Mi ha squadrato e mi ha detto: “Wow, Matti, sei l’uomo più figo che conosco. Sei stupendo. Hai fatto dei trattamenti rilassanti?”. E allora oggi mi è restata addosso questa cosa, mi risuonava nella testa rendendomi orgoglioso e sicuro di me. Ero a Chignolo d’Isola per un torneo di popini, ero al settimo cielo e ragionavo da sex symbol: “Faccio il selfie e un post come le fighe, di quelli con sopra una frase alla cazzo di Osho”. E al ritorno mi sono fatto la foto, al parcheggio dell’Auchan di via Camozzi dopo aver preso il vitello tonnato impacchettato, il pranzo di rito della mia lunga domenica redazionale. Ed ecco a voi la frase del contradditorio santone indiano che ho scelto per celebrarmi: “Osserva un bambino che raccoglie conchiglie sulla spiaggia: è più felice dell’uomo più ricco del mondo”. Che non c’entra una beata minchia con me o con mia sorella, che lo sbattimento delle conchiglie a casa mia non lo abbiamo fatto mai e poi mai, manco da bimbetti a Zadina, le estati con la nonna Pina, ma questo è quanto ho letto adesso su Instagram sotto a una tipa mezza biotta, nel suo appartamento in centro a Milano, con delle chiappe fantastiche e un tanga minimo, le poppe giganti quasi fuori e settemilatrecentosettandue like. Quindi ci provo anch’io, a mio uso e costume, nel sogno di diventare famoso.
E poi c’è anche l’amore, che è quello che conta quando scrivo, che è ogni volta battere sui tasti per sentirmi un pochino Madre Teresa di Calcutta o il Papa buonissimo, che era un genio del bene, il Pontefice che raccomandava di fare due carezze forti forti ai propri bambini, appena andati a letto, così da svegliarli e passare la notte insieme allegramente insonni. Quasi sempre mi metto al computer per migliorarla quell’attimo a me e ai miei lettori grazie alla saggezza delle esperienze e alla cultura minima che ho dei grandissimi, Yoda di Guerre Stellari compreso, il mio idolo, forse ancora più di Ze Ze, il mio psicologo, il giovedì pomeriggio dalle quattro alle cinque al centro di Nembro, pensateci se vi piacerebbe fare una seduta accanto a me. E allora vi dico: “Dite a vostra sorella o a vostro fratello o a tutti e due che sono meravigliosi, gli regalerete la super potenza dei giochi Atari per una settimana e passa”. Dispiace per i figli unici, ma la risolvo al volo, se ne conoscete uno, scrivetegli due righe senza sbattervi eccessivamente, visto che non è un parente stretto, giusto un messaggino decente via WhatsApp, e avrete fatto quello che è giusto fare in questo mondo.
Matteo Bonfanti