Al netto che aveva ragione Faber quando cantava che “una notizia un po’ originale non ha bisogno di alcun giornale”, mi sento però in dovere di raccontare la mia versione dei fatti accaduti nella notte di lunedì 14 ottobre anche e soprattutto per tranquillizzare gli amici più stretti e i parenti più prossimi, allarmati dalle notizie uscite nelle ultime ore un po’ dai miei figli, parecchio dai colleghi della redazione di cui sono il direttore.
Non divago, mi travesto dal cronista che non sono mai stato e inizio il racconto partendo dal principio. Reduce da una devastante partita di pallone al campo in sintetico di Grassobbio, tra l’altro persa malamente contro i giovani virgulti dell’Ottica Foppa, intorno a mezzanotte mi trovo lungo via Borgo Palazzo a bordo della mia Fiat Panda nuova, gialla e ibrida, magnifica nella sua piccolezza. Parcheggio ad minchiam la mia fuoriserie e mi dirigo a comperare le sigarette al ventiquattrore che c’è più o meno di fronte all’Universal, il kebabbaro buonissimo di BiGì. Davanti a me ci sono due che forse hanno trent’anni o forse meno (ma portati male male), un ragazzo e una ragazza, conciati e con dei cartoni al seguito. Stanno litigando ferocemente, lui le sta mettendo le mani addosso, prima la spintona, poi le dà due schiaffi in pieno viso. Ovviamente intervengo e mi metto tra di loro, per la prima volta nella mia vita privo della benché minima paura perché totalmente nel giusto che a me, figlio di Valeria e di Marco, papà di Vinicio e di Zeno, gli uomini che odiano le donne mi fanno assai incazzare. In un attimo, sconvolgente, lei, che poi mi rivelerà di chiamarsi Fatima, si rifugia tra le mie braccia e mi dà un bacio sulla bocca, lui, di cui non scoprirò mai il nome, inizia a strattonarmi pesantemente. Sarà la palestra, sarà che ho la nonna Pina accanto alla Madonna che guardano sempre giù, sarà come sarà, faccio lo stesso e lo sposto di tre metri. Al che il violento si allontana con i suoi cenci e io resto solo con Fatima, che non smette di tenermi stretto. Fiero di me, compero i mozzi, tre pacchi di Marlboro Gold, do il resto al testimone chiave, un ragazzotto biondiccio completamente fatto, che, durante il litigio, continuava a chiedermi “hai delle monete che ho fame?”, e venti euro alla malcapitata, sicuramente a digiuno, con addosso gli stessi vestiti chissà da quanto tempo, insomma molto molto povera. Ricevuta la banconota, Fatima mi chiede un passaggio, io, illuminato dalla luce della misericordia, mi metto a disposizione. Vuole andare in stazione e fin qui tutto normale, la vicenda s’ingarbuglia quando vediamo il suo aguzzino per strada e lei mi chiede di fermarmi e di tirare su pure lui. Io, in evidente stato di shock, senza pensarci, accolgo la richiesta e mi fermo a raccattarlo.
Esce il mio passato da boy scout e in maghina gli faccio un bel sermone, onesto, sincero, giusto e sacrosanto, “ma, ragazzi, non picchiatevi più, cercate di rispettarvi e di volervi bene, siamo al mondo per questo”. Noto che mi ascoltano poco, privi dell’attenzione necessaria, e Fatima mi chiede di allungare il mio passaggio all’autostazione. Sono cinquanta metri di differenza, li faccio volentieri e mi fermo per farli scendere. E lì vivo i cinque minuti più brutti della mia esistenza: un’orda di ragazzi sale sulla Pandona, uno mi prende il cellulare, lasciato sul cruscotto, un altro, nel posto del passeggero, mi ruba le sigarette appena comperate e il carica batterie. Nei sedili dietro è il delirio, chi porta via le copie di due miei libri (ma questo, dai, è anche qualcosa di bello, speriamo che li abbia letti), chi la mia borsa del pallone, chi due mutande Calvin Klein lasciate dal mio figlio più piccolo, Zeno. Fuori, dico dall’auto, c’è chi ravana nel mio baule, e della refurtiva non ho la minima idea perché è il posto dove la mia ex moglie, Costanza, infila di soppiatto materiali di cui vuole disfarsi. E c’è pure un giovane impegnato a trafficare dentro il cofano. Divento Hulk, rosso come un peperone tiro una sclerata paura, strappo il telefono di mano a uno dei miei ladri e dico parolacce su parolacce, forse pure un bestemmione (che non serve). Nel caos c’è un momento in cui nessuna delle cavallette è nella mia vettura e io ne approfitto, partendo all’impazzata, per poi fermarmi un chilometro avanti.
Cosa resta dell’esperienza? Sicuramente il fatto di essere finito per caso dentro una storia tossica, per fortuna finita bene, che mi è costata economicamente una cinquantina di euri tra sigarette, mance, libri, mutande, calzettoni, braghette, maglietta Isper di colore blu col numero otto, canottiera bianca a righe, ciabattine Havaianas, shampoo alla camomilla e asciugamano del Milan. A ripensarci probabilmente sono stato vittima di una messinscena, la migliore possibile, perché un uomo perbene non può fare finta di niente davanti a qualcuno che sta picchiando una donna.
Matteo Bonfanti
Nella foto: l’Autostazione di Bergamo, più o meno dove era parcheggiata la mia Pandona