Vinni è più alto di me, Ze quasi. Eppure per me sono sempre quei due della foto sul frigo di casa, piccini picciò, appiccicati, quattro e due, felici, mano nella mano verso un mio abbraccio. Dicevi, amore mio, ed era meno di una settimana fa: “Ormai sono grandi e tra una manciata di minuti manco avranno più bisogno di te. Andranno e tu cosa farai?”. E io ci ho pensato tanto, nelle lunghe ore del mio destino eccezionale, che da anni sono un giovane ragazzo padre in ogni fine settimana. Nella mia mente c’era la tua frase e io mi concentravo, cercavo di ricordare mio nonno Cesare quando mi portava dalla sua mamma, la famosa Dina, sorda che più sorda non si può. Aveva cento e passa anni, lui ottantadue, lei gli accarezzava i capelli e il viso, lo guardava e gli sussurava all’orecchio “Cesarino, bimbo mio, vieni qui, fatti abbracciare e coccolare…”. E a me allora sembrava tutto strano, come in quei film in cui si torna indietro e si riparte dall’inizio della vita, l’infanzia.
Poi oggi, ero a casa, li aspettavo che stavano tornando da scuola. Pensavo a un menù degno del sabato, in stile ristorante come faceva il mio babbino con me, da chef, coi libri di Suor Germana sotto braccio e ore e ore a spadellare. Sono sceso a fare la spesa, ho comperato mezzo supermercato, che in casa c’era poco, solo formaggi e mille cose macrobiotiche che a me e a loro fanno pure bene, ma ci mettono addosso la fame, la tristezza e il mal di panza. Sono arrivati a tavola mentre facevo un soffrittino alle cipolle. Il primo è stato Vinni, mi ha detto: “Faccio io, non stare a sbatterti… Piuttosto raccontami di Yara che è una storia che mi intrippa”. Poi Ze: “Metto sul fuoco un hamburgher… Non ho voglia che fai fatica”.
E li ho lasciati fare. Mi sono pappato il vitello tonnato mentre loro due stavano a smadonnare tra i fornelli. E parlavamo di Yara, gli spiegavo del dna addosso, ma era solo per fargli l’esempio e abbracciarli un poco, perché mi mancava la loro pelle, quel contatto coi miei popi.
Alle quattro di pomeriggio sono andato a lavorare. Alle sei di sera ero fuori dalla redazione, sul solito muretto, parlavo con Marco del fatto che un giornale nel 2021 deve essere anche un’agenzia di stampa, capace di fare un libro in due minuti per i suoi clienti. Ed è arrivato Ze in bicicletta, mi ha detto: “Babbino, mi mancavi. Ti aspetto a casa per la sbobba che solo tu la sai fare così porca e pure Vinni sta a casina che noi due siamo i tuoi bambini e vogliamo stare sul divano abbracciati con te al chiaro di luna”.
E, amore mio, io lì ho capito la nonna Dina a quei tempi là, che è vero come dici, i figli crescono, diventano alberi, grandi forti e controvento, le mamme e i babbi invecchiano e non c’è più così bisogno. Ma quel che non sai è che nel mio cuore di padre non ce la si fa mai, persino a cent’anni sono sempre quei due della foto del frigo, Vinni e Ze, quattro e due, piccini picciò, mano nella mano di corsa per abbracciarmi. E io devo esserci. Per accarezzargli i capelli e il cuore.
Matteo Bonfanti
Nella foto io e Ze, mezzora fa quando è arrivato in redazione e siamo andati al Blu Puro a giocare a stecca