Avessi in tasca il romanzo della mia vita eccezionale, so che un lungo capitolo parlerebbe di lui, che si chiama Ernesto, domani compie settant’anni, ed è quasi mio padre, quasi il mio migliore amico, quasi un maestro, sicuramente il nonno preferito dei miei due figli, di Vinicio, ma soprattutto di Zeno, il mio folle secondogenito che qualche mese fa voleva tagliarsi i capelli proprio come il suo amato Erni, la crapa pelata e i ciuffi ai lati. Non gliel’ho lasciato fare, a scuola l’avrebbero preso per il culo, così, dopo un’estenuante trattativa dal barbiere di via Moroni, siamo arrivati a una sorta di compromesso e Zen si è fatto il taglio tamarro con la tinta azzurra tutta intorno, celeste come il cielo di Valgreghentino, il paese dove Ernesto abita con Valeria, mia mamma, in una casa grande grande che per me e la mia stirpe è un porto sepolto, il nostro riparo.
E’ un posto che ci fa stare bene bene perché c’è Vale, con i suoi tortellini in brodo, il gnocco fritto, Bologna e le chiacchiere fitte fitte, e perché c’è Erni, Ernesto, che di nome fa proprio come il Che. E che di Guevara ha la parte migliore, il sogno e il bisogno di un mondo più giusto, senza i ricchissimi e dove non ci sia chi crepa di fame. Ma non sono solo le idee, grandi, forti e contro il vento che soffia in questi tempi gelidi e cupi. Per me, per Vini e per Zen, Ernesto è il tempo degli abbracci sul divano vedendo la partita del Milan, dopo aver mangiato la pasta al pesto, le cotolette e le patatine, che a Valgre sono sempre troppe e mettono addosso la voglia di chiudere gli occhi e di iniziare a sognare.
Che dire d’altro? Che spesso non è facile amare i propri figli, figurarsi quelli che neppure sono tuoi e poi che come me sono anche un po’ bigoli. Erni ce l’ha fatta fin dal primo momento: “Ciao Matteo, ciao Chiara, io sono Ernesto e ci sarò ogni volta che ne avrete bisogno”. Erano trent’anni fa ed Ernesto è stato di parola, pure quando suonavo terribili pezzi punk in taverna, arrivava ad ascoltarci, sognando la smettessimo, ma senza dircelo mai, pure quando al suo matrimonio con Vale cantavo ubriaco brani pessimi, di dubbio gusto, inventati sul momento, pure quando ho spaccato la porta della cucina a cartoni, perché a volte è dura stare al mondo e ne sento l’ansia nello stomaco, il giorno dopo, insieme, ci siamo messi in silenzio a riparare i cocci della mia esistenza perduta.
E succede così che già il venerdì mi capiti di aspettare il lunedì: porto i giornali alla Cisanese e corro un salto a Valgreghentino. Con Erni parlo di politica e di sport ed è un appuntamento irrinunciabile perché Ernesto legge molto e ne sa un sacco e perché Ernesto, più di tutto, riesce a volermi bene nonostante sia un pazzoide, casinista, spesso molesto con me e con gli altri.
Matteo Bonfanti