BERGAMO

– Riavvolgiamo il nastro della memoria: stadio “Comunale”, viale Giulio Cesare, 12 maggio 1985. Atalanta-Hellas 1-1, gol di Perico e risposta di Elkjaer. Lo scudetto se lo prendono Romeo e Giulietta. In panchina c’era un milanese pane al pane e vino al vino, artefice di un miracolo da pallone operaio: “L’Atalanta è stata il crocevia del trofeo per cui vado tanto famoso, ma anche un’avversaria storicamente rognosa, portatrice dei sani valori del calcio di provincia”. Osvaldo Bagnoli, premiato per una carriera inimitabile dal Panathlon di Bergamo, è tornato sul luogo del delitto. E non solo per ritirare un vassoietto ricordo: “La gioia e le emozioni di quel giorno ce le portiamo dentro tutti, sempre. Lo scudetto da calciatore al Milan nel ’57 era stata un’altra cosa, avendo giocato solo 10 partite. Non potrebbe non farci piacere essere qui di nuovo”. Passano gli anni ma lui è ancora lui, il Mago della Bovisa, accompagnato nell’occasione da Pierino Fanna, il numero 7 dalle serpentine irresistibili (“All’Atalanta devo molto, arrivai 14enne e me ne andai uomo. E mia moglie è di Brembate Sopra”), dal libero-capitano Roberto Tricella (“Un collante perfetto per uno spogliatoio senza malumori e divisioni”) e da due suoi ragazzi che in quell’annata magica erano altrove. Domenico Penzo, bomber che se n’era andato (direzione Torino, poi sbolognato a Napoli) giusto la stagione prima del trionfo; la bandiera atalantina Marino Magrin, che quella famosa domenica era in campo per tirare la bomba (rimasta in canna) da nerazzurro e al “Bentegodi” arrivò solo nel 1988: “Venivo da due anni di Juve e in seguito sarei dovuto rientrare a Bergamo, ma la storia andò diversamente. Ho nel cuore anche Verona e il mister”.
“Lui ce lo diceva sempre: per giocare bene a calcio bisogna usare anzitutto il cuore. Il resto lo fa la capacità dell’allenatore di schierare i giocatori nella posizione loro congeniale”. Il proemio all’ora di cena di Luigi Sacchetti, il portaborracce di lusso di quel Verona, introduce l’amarcord di un calcio da poesia, eppure semplice e spiccio come il suo alfiere, settantanovenne che non si riconosce più nella sfera di cuoio miliardaria di oggi: “Nel marzo del 1994, esonerato dall’Inter dopo un annetto e mezzo, me ne andai a casa e scoprii che restarci mi piaceva moltissimo. Sicuramente di più che dover sopportare certe cose. A me, una mezzala istintiva, non andava nemmeno di dover giocare sulla fascia quand’ero in campo, figurarsi”. L’assenza di compromessi: la filosofia e, insieme, il segreto del successo. “E di schemi si parlava solo per le palle inattive: erano i giocatori a determinare il modulo con le loro caratteristiche, non il contrario”, sentenzia Tricella, il regista difensivo dello squadrone che fu. “Parlano tutti di Preben, ma avevamo un mediano, Briegel, che fece 9 gol. Solo 2 meno del nostro bomber: era lui che dava sostanza al miracolo Hellas”. A Bagnoli, per congedarsi, non resta che disseppellire l’aneddoto di sempre: “Coppa Campioni 1985/86, perdiamo con la Juve a Torino, a porte chiuse, dopo un arbitraggio un po’ strano. Uno dei miei, rientrando negli spogliatoi, gettò per la stizza uno zoccolo che rimbalzò da terra fino a una vetrata, scheggiandola. Un poliziotto venne a vedere cosa fosse successo ed ecco che me ne esco con un ‘Se cercate i ladri, sono dall’altra parte” rimasto famoso”. Esattamente come l’ultimo titolo vinto alla periferia dell’impero.
Simone Fornoni