Prima che le esperienze, il vino e le sigarette indurissero le mie membra e il mio cuore, sono stato un bambino molto buono, talmente gentile ed educato da venire considerato dalla mia catechista dell’epoca, la signora Carla, un bimbetto in odore di vocazione, per la felicità di mia mamma, la cattolicissima Valeria, e la mezza delusione di mio babbo, Marco, uno dei pochissimi comunisti della mia città.
Bellino, con gli occhi celesti e sognanti, rosso di capelli, più di tutto dolcissimo, in un attimo all’oratorio ero diventato il bersaglio preferito di un ragazzo, Ivan, che era molto più grande di me, e, se giocavamo contro, a pallone, come a palla due fuochi, come a un due tre stella, me le dava di santa ragione. Di lui ho un vago ricordo, mi sono scordato sia il suo viso che le sue botte, mentre ho sempre in testa il momento in cui non mi sono più sentito solo, accanto a Claudio, ingaggiati insieme a quattordici anni appena compiuti dall’Olginatese, l’ala, che ero io, e il centravanti, che era lui, il primo a difendermi, a menare il terzino che cercava di fermare la mia corsa tirandomi calci e calcetti sugli stinchi.
Come tutti, anche io rimuovo le cose brutte che mi sono capitate, mentre porto con me quelle belle, la mia prima doppietta, un sabato pomeriggio sul campo dell’Aurora San Francesco, il mio primo amore, incontrato lungo il corridoio del mio liceo, il famoso Gb Grassi, la sera che ho trovato il coraggio di varcare la porta di un giornale, la Gazzetta di Lecco, incontrando Dario, che ha subito creduto in me. Poi la nascita del mio nipotino, Pietrone, e quelle dei miei figli, Vinicio, che era tutto giallo per via dell’ittero e pareva un cinesino, e Zeno, che era già bellissimo, diverso da tutti gli altri neonati, che paiono dei vecchietti in miniatura, di quelli che stanno a vedersi i cantieri, brutti, ingobbiti e il più delle volte anche tanto cattivi.
Va così, in ogni mio racconto cerco i raggi del sole che scaldano il mio cuore. Nascondo i temporali, il freddo e il gelo, ignoro tutte le volte che mi sono trovato stanco e perduto, bagnato fradicio per via della pioggia incessante.
Ieri notte prima di addormentarmi ho letto un bellissimo articolo su L’Espresso a firma di una collega bravissima, che io non conosco e che si chiama Linda Caglioni. La giornalista ha girato in lungo e in largo la nostra provincia, nelle case dove abitavano alcune delle migliaia di persone che sono state uccise dal coronavirus. E’ andata a Brembate per vedere la maglietta dell’Atalanta che Battista Villa indossava ogni domenica per andare al Comunale. Da lì è corsa a Nembro, prima ad accarezzare la Singer della famosa Rina, la signora Giuseppa Nembrini, fazzoletti cuciti per un intero paese, poi ha bussato alla porta dei famigliari di Ilario Lazzaroni, che era un uomo dal sorriso contagioso, sempre col basco in testa, allegro mattatore dei raduni dei suoi artiglieri, di cui era il presidente da almeno due decenni.
Dalla Valle Seriana a Boltiere, dove viveva il mitico Giamba, al secolo Gianbattista Federici, camionista dal cuore d’oro, due grandi passioni, quella per i modellini delle macchine d’epoca e l’altra, ancora più grande, per il nipotino appena nato. Sarebbe andato in pensione a fine anno, per festeggiarlo la moglie e i figli gli avrebbero regalato una Cinquecento, la sua auto preferita.
Brembate, Nembro, Boltiere e la giornalista arriva a Dalmine, la città di Ernesto Paganini, bergamasco di origine siciliana, una vita in fabbrica, ma portando sempre nel cuore il primo amore, il mestiere da barbiere, fatto nei ritagli i tempo, a domicilio, rallegrando i tantissimi clienti con la sua naturale simpatia. A Madone c’era Severina Mariani, mille e più foulard, di ogni colore. A Osio Sopra Emilio Cadei, una vita alla Tenaris, un gigante splendido e buono, che ogni domenica radunava la sua famiglia per fare a tutti le caldarroste sulla sua meravigliosa stufa. A Bergamo, quartiere Monterosso, Giuseppe Rota, il Bepi, sorriso in faccia e zainetto in spalla, sulla Maresana come lungo il cammino di Santiago, fatto appena un anno fa con la moglie.
Oggetti immortalati nel servizio giornalistico, immagini come quelle fatte tutta la vita da Sandro Gamba, vicepresidente del circolo fotografico di Dalmine, mille e passa diapositive e altrettante mattine passate a portare i pasti agli anziani della parrocchia di San Giuseppe.
L’articolo, che io vi ho riassunto in poche righe, ma che vale la pena di leggere per intero, qui da noi ha ricevuto tante critiche, quelle dei moltissimi bergamaschi che stanno cercando di dimenticare il momento più buio della loro vita. E’ normale, anche perché siamo una popolazione frastornata e piena di rabbia, che ha un’immensa voglia di voltare pagina dopo avere sentito il rumore delle sirene per giorni e giorni, sempre intorno, nell’ansia cieca che si trattasse di un nostro caro.
Il covid è stato qualcosa di terribile, da rimuovere. Ma non lo sono Battista, Rina, Giamba, Ernesto, Severina, Giuseppe, Sandro e gli altri che se ne sono andati in cielo, persone eccezionali che ci hanno lasciato troppo in fretta, senza che avessimo il tempo necessario per salutarli degnamente. Per questo faccio questa proposta ai nostri sindaci, quelli delle nostre città, così come quelli dei nostri paesi, la mia richiesta agli amministratori è quella di trovare il modo di raccogliere le storie delle donne e degli uomini vittime di questa tragedia collettiva che è stato il coronavirus nella nostra provincia. Una stanza in ogni Comune per ricordare la nostra gente, bellissima, qualcosa per aiutare i nostri cuori.
Matteo Bonfanti