Intanto auguri a mio babbo, Marco, l’architetto della mia vita, quello che con mia mamma mi ha messo al mondo. Di lui il viso e gli occhi azzurri, l’aria sognante e le parole che sento quando scende la sera e mi si apre il cuore tutto intorno. Di lui anche la voglia di ridere e di scherzare e pure l’immenso bisogno di amare. Grazie a lui la sola cosa che vorrei dare ai miei figli: la sicurezza che a mettersi d’impegno, qualcosa di bello deve per forza arrivare, un regalo che mi ha fatto quando ero appena un ragazzo, tra il primo e il secondo tempo di mille e passa partite di pallone vissute a perdifiato sulla fascia destra, senza fermarmi mai. Dai gradoni della tribuna fin giù alla recinzione per dirmi “sei il migliore che ho visto giocare”.
Poi auguri a Ernesto, l’operaio di questi miei anni difficili, ogni volta pronto a sorreggermi, a raddrizzarmi con le mani mentre dentro di me si alza il vento freddo che porta la neve e ho bisogno di frasi e sorrisi vestiti di fresco per ritrovare il mio arcobaleno e far ritornare il sole. E mentre il lunedì pomeriggio mi prepara un panino col gorgonzola, l’insalata e il salame, io da lui imparo l’immensa cura per gli altri, qualcosa di fondamentale per addormentarmi la notte leggero, senza sassi nelle scarpe.
In ultimo auguri anche a me, che mai avrei pensato che fare il padre fosse qualcosa di tanto bello. E me ne accorgo ogni mattina, mentre dalla sala sento i miei figli nella loro stanza, in questa nuova scuola, impegnati a chiacchierare di geometria, di storia oppure di Montale. Come ieri e l’altro ieri, uguale a oggi, che Vinicio e Zeno si sono messi in pausa dalla dad e sono corsi ad abbracciarmi sul divano, sbaciucchiandomi il giusto, per ricordarmi che è la festa del papà: “Ti vogliamo bene, babbino bello. E ricordati di scrivere al nonno Marco e al nonno Erni”. E l’ho fatto, le mie prime righe del giorno, ancora prima di cominciare a lavorare, le più importanti, per celebrare chi mi ha dato la vita e continua a darmene una bellissima parte.
Matteo Bonfanti
Nelle foto i tre padri che racconto: io e mio babbo, Marco, ed Ernesto, immortalato con un gatto