di Simone Fornoni
Poker dalla Lazio, uno-due sotto la Lanterna dopo aver provato ad accendere il faro della grande illusione. E giù le paranoie. A dito puntato, davanti a una platea da stadio dedita a bofonchi e mormorazioni. Se il calcio non è un’aula di tribunale, poco ci manca. La stampa e la tv presiedono le sedute e sostengono l’accusa, e qui non ci siamo con la divisione istituzionale dei compiti. Vabbe’. I tifosi compongono il collegio dei giurati. L’arringa è sacro dovere dell’allenatore, uno che del resto dà gli ordini, a volte pagandoli cari. Nel caso dell’Atalanta, c’è Gian Piero Gasperini con la toga dell’avvocato, forse di se stesso, togliendo il ruolo a quel Willy Stendardo che lo è sul serio ma lui vede come riserva tra panchina e tribuna, in un vero e proprio processo alla difesa. Un reparto che nonostante il valzer di nomi, posizioni e anche schemi, perché associare l’incipit stagionale al 3-5-2 vuol dire non contarla giusta, s’è trovato a ballare il liscio che più liscio non si può.
Sei gol al passivo nelle prime due giornate di campionato, a dispetto dei più cambi di formula in corsa, anche se in casa Samp l’unica vera variazione è stato lo spostamento di Zukanovic in mezzo per il ko di Toloi, il Bonucci designato della retroguardia nerazzurra, non depongono a favore di una combinazione tra uomini e opzioni tattiche fin qui decisamente poco o per nulla azzeccata. Dice malissimo quel Raimondi reuccio della corsia destra per una vita intera, addirittura tornante con spiccate propensioni offensive ai tempi della Favola AlbinoLeffe, riciclato a centrale un po’ colabrodo. E spostato ovunque a mo’ di jolly a partita iniziata, a dispetto delle trentacinque primavere: di fatto basso a destra alla prima nella catena con Conti, ha cambiato fronte per la defezione di Dramé, l’ingresso di D’Alessandro e l’arretramento del lecchese; la domenica successiva, eccolo di nuovo sulla mancina del 4-4-1 in inferiorità numerica. L’addizione di Konko, aitante e duttile scudiero della filosofia gasperiniana, è avvenuta a Genova solo a patatrac compiuto, leggi remuntada su rigore e azione causate da un paio di dormite davanti a Muriel (penalty di Quagliarella procurato e traversone per il gol dell’ex di Barreto) del summenzionato sedrinese col doppio giallo a Carmona ad anticipare il colpo del ko: fuori Paloschi, Gomez da solo davanti e dentro lui, l’uomo di fiducia del mister, tanto da essere provato anche come interno destro nei primi venti minuti del secondo tempo dell’amichevole zingoniana di sabato scorso contro il Como. Nell’assetto più propriamente a tre, in cui comunque si difende di preferenza a quattro perché non si può chiedere a un’ala pura come il numero 7 del Tiburtino di rinculare sempre quando la palla ce l’ha il nemico, c’è uno Spinazzola abbastanza pimpante da fregare il posto al senegalese, schienato più che altro dalla tremenda ginocchiata di Parolo alla tempia, ma senza polmoni e gamba a sufficienza per vangare il prato avanti e indietro. Ennesima incongruenza, almeno per chi concepisce il calcio alla stregua di qualcosa di definito e immutabile, la zolla di Masiello: centrale di sinistra, e tanti saluti a Colantuono che lo vedeva come un terzino destro, o a Reja che lo aveva reimpostato a stopper nel quartetto d’archi arretrato oppure regista difensivo nelle saltuarie virate al terzetto.
Un rebus difficile da risolvere, perché gli equilibri non sono merce che si compra al mercato, nel quale hanno levato le tende solo l’esterno Brivio e il centrale Djmisiti lasciando comunque al Gasp l’imbarazzo della scelta. Al franco-senegalese-marocchino i galloni da titolare non li leva nessuno se non un virus o un batterio di quelli tosti. E gli altri del mestiere? Caldara s’è fatto le giovanili azzurre ma marcisce in panca, Stendardo non se n’è andato all’Hellas o al Pescara e forse, con l’esperienza a pacchi che si ritrova, un posticino potrebbe spuntarlo. Ma il problema, vedi sopra, è che i singoli elementi non stanno producendo una reazione chimica bilanciata. Andando a ritroso, l’Aquila aveva impallinato la Dea, ridotta a ninfetta con la bocca aperta a pelo d’acqua di stagno, sfruttando un rimpallo sfavorevole a Conti con doppio errore di posizione Raimondi-Toloi, una palla inattiva Biglia-Hoedt (complice Sportiello, male pure sul Cagnàs a Marassi) e un contropiede Kishna-Immobile-Lombardi da mietitrebbia sul prato del povero CR77, chiudendo poi col salto della quaglia sullo sfiatato Spinazzola di Basta per il quarto centro di Cataldi. Detto che in simili condizioni chiedere a uno dei mastini laterali di salire in accompagnamento è quanto di più simile al suicidio possa esistere, prima di chiedere l’eutanasia c’è la prova d’appello che non si nega ad anima viva: l’occasione del riscatto, per una retroguardia in odore di condanna, è il tridente del Torino spuntato dagli acciacchi in serie.