Mario Pasalic, sei gol nelle ultime cinque partite, otto totali fra cui l’apripista delle grandi illusioni a Old Trafford, seduto fisso in panchina a farla da spettatore nella prima grande prova del nove in Champions League. Il vice bomber dell’Atalanta, dietro il Duvan Zapata innegabile trascinatore e lider maximo giunto alla sporca dozzina, lasciato fuori nella partita da dentro e fuori. Al di sopra del primo tempo buttato via anche per l’utilità zero del suo sostituto Matteo Pessina e perfino dell’erroraccio in uscita di Merih Demiral che ha spalancato l’autostrada al doppiettista Danjuma e al suo Villarreal smaliziato e cinico, resterà il più grande rimpianto nerazzurro per aver mancato gli ottavi di finale fino alla notte dei tempi.
Che il nazionale croato, recentemente capitano di una rappresentativa che a differenza dei moschettieri azzurri a Qatar 2022 si è qualificata dritta filata, non fosse in forma o non facesse al caso dei piani tattici di Gian Piero Gasperini, poco importa. Inutile piangere sul latte versato. Out il brianzolo, nella ripresa gli è subentrato Ruslan Malinovskyi che ha pure tenuta viva la fiammella della speranza. Ah, ma se c’era SuperMario, l’eroe di Manchester insieme proprio al nazionale turco, nettamente il peggiore in campo nella missione fallita di affondare il Submarino Amarillo!
C’è il caso che il mister, uno a cui le domande sugli assenti di turno rompono sempre le balle, tanto da essere una delle cause scatenanti dei silenzi prepartita in campionato (l’Uefa, al contrario, non lo consente), non si dia né si darà mai la pena di spiegare al popolo nerazzurro e agli addetti ai lavori i perché e i per come delle sue scelte. Magari il formidabile jolly svenduto inspiegabilmente dal Chelsea ai Percassi, che da quando c’è il Gasp in sella di mosse di mercato ne sbagliano pochissime e quasi sempre senza rimetterci, nel recupero post neve del giovedì, giorno tradizionalmente consacrato ai matti, aveva gambe e muscoli surgelati, ibernati, di marmo.
Dopo tutto comanda l’uomo in panchina, che ne sa più di tutti, anche perché Zingonia è un fortino inespugnabile, tranne per gli insignificanti quarti d’ora della rifinitura pre Europa, anche e soprattutto per gli addetti ai lavori. Ormai è chiaro che resta a vita, non lo si può discutere. Ma l’impressione è che la sua genialità e la sua bravura nel proporre un calcio emozionante, a trazione anteriore ma tutto sommato equilibrato, e infine esteticamente il più bello ammirato da queste parti, debbano sempre e comunque cozzare contro il limite della sua scarsa disponibilità ad aprirsi.
Proteggere i suoi ragazzi anche dalle critiche, nominando il peccato ma non il peccatore, come contro i valenciani, dà la misura della sua autorevolezza di capo riconosciuto e incontrastato da quando è riuscito a fare fuori il Papu Gomez, il gallo numero due di un pollaio altrimenti a rischio di beccate furibonde. Ma la chiusura al dialogo all’insegna del “so io cosa devo fare e voi non potete scrivere, obiettare o domandare alcunché”, eh, questa è un limite. La squadra è carne e sangue dei bergamaschi. E il progresso, diceva Hegel, è la dialettica degli opposti. Con sabato, alla vigilia di Verona, sarà la nona volta senza opposti, senza rapporto dialettico, senza far arrivare ai tifosi – i mass media sono un tramite, niente di più – la voce che vogliono sentire. Nessun altro allenatore in serie A, forse nel mondo, ha saltato più di metà delle conferenze stampa. Forse è il caso di invertire la rotta. Riempiendo di Atalanta il nostro tutto, perché ne abbiamo bisogno.
Simone Fornoni