Con me Diego Belotti giocava e a me quel gioco piaceva da matti: mi nascondeva le notizie di mercato che già sapevo, mi depistava, tentava di censurarmele, io me ne fottevo e le scrivevo lo stesso, lui faceva finta di incazzarsi e poi ce la ridevamo per ore su quanto a tutti e due ci piacesse ballare quel valzer unico nel giornalismo sportivo, quello tra un direttore irresponsabile e un presidente tanto importante. Mi stimava, in quel suo modo da adorabile incazzoso, che non so quante volte me l’ha menata per aver cannato l’impronunciabile nome di un fenomeno giallorosso che aveva scoperto chissà dove, ma pure quante volte mi ha detto: “Bravo, ci sai fare”. Diego era un irascibile, il massimo durante le partite col povero arbitro di turno, ma era pure un uomo stracarino, dolce, generoso e paterno, affettuoso, capace di farti stare bene bene. L’ultima con me neppure un mese fa: “Vi faccio la pubblicità, ma solo se Matteo viene da me che ho voglia di raccontare i miei quarant’anni di Grumellese. Ma non voglio un altro giornalista, solo lui perché è il migliore”. Mi aveva commosso, che io non mi considero un granché, e nel fondo del caffé l’avevo visto uguale a un gigante, tra i pochi nel nostro mondo a non aver paura di farti sentire la propria stima, immensa e vera, qualcosa di bellissimo. Così avevamo passato quasi un giorno a contarcela su, i primi dieci minuti a fargli domande, poi, invece, a raccontarcene un pezzetto per uno, visto che erano troppi gli amici in comune, le vicende vissute, lui da gatto, io da topo, o viceversa, nel nostro strano pianeta, quello del calcio bergamasco, durissimo, di pietra, ma che per Diego valeva più di casa sua.
Così, quando Monica mi ha chiamato per dirmi che era morto, ho fermato la macchina e ho parcheggiato, ascoltando perché al mio cuore la notizia facesse tanto male. Stavo andando alla presentazione della Gandinese, un club tra i più allegri della nostra provincia, e avevo voglia di girare la mia Pandona per chiudermi in silenzio in redazione. Chiedo scusa al ds rossonero Robecchi, dirigente straordinariamente accogliente, se ho salutato e sono andato. Ma ero nullo, non mi veniva niente, nessun sorriso. Il motivo è semplice e tragico, sta qui nel mio petto, questa sera se n’è andata una persona che a me e al nostro giornale ci teneva da impazzire, perché per lui le mie parole e quelle del Bergamo & Sport erano tutto, il Vangelo, secondi per importanza solo alla sua Grumellese, quei ragazzotti che giocavano al campo, la sua storia, la sua vita, il suo scopo. Sento di aver perso qualcuno che mi è sempre stato vicino, non dubitando mai del mio valore né di quello del settimanale che dirigo. Non parlerò di chi l’ha amato, e lo faccio per rispetto perché immagino in questo momento le lacrime sul viso di alcuni mostri sacri del nostro pallone che ne hanno diviso parte dell’esistenza, Damiano Zenoni, Vincent Lleshaj, Michele Arrigoni, Okiere Gullit, solo per citare i quattro più famosi, né dirò i mille segreti che mi ha raccontato nelle nostre interminabili chiacchierate, “ma Matte non scriverlo perché ci resterebbero male”, anche se non mi ha mai parlato male di nessuno, erano vicende che facevano solo un sacco ridere. Del resto Diego era un buono, incapace di odiare, s’incazzava quando qualcuno lo deludeva, litigava, bestemmiava, poi per lui il giorno dopo era bella che finita.
Mentre scrivo penso al paradiso, mi succede quando perdo qualcuno che vale, di importante. E Diego, mai fermo, impossibile da vedere con le mani in mano, forse perché figlio di un falegname, sempre a pensare all’imminente colpo di mercato della sua Grumellese, ora sarà lì con San Pietro a convincerlo a mettere in piedi in coppia un ottimo settore giovanile e una prima squadra da urlo, chiedendogli che tipo è in campo Gesù, se è meglio farlo giocare mezzala destra o punta centrale e se si può tirare un po’ sul prezzo del rimborso spese. Che lui ha sempre dato perché era un uomo di parola, anche a costo di perdercene parecchi.
Matteo Bonfanti
Nella foto Diego Belotti e il suo nipotino, un altro suo grande amore