Non so se dovrei scriverne, che mio babbo l’altra sera mi diceva “hai fatto un libro, ma per diventare uno scrittore dovresti smetterla di raccontare quel che vedi e metterti solo a immaginare”. E alle sue parole ci ho pure pensato, che a lui ci credo tanto perché scrive bene bene, da quando lo conosco mille e passa cose fuori dal comune. Mi sono messo con calma, una mezzoretta concentrato senza musica intorno, mentre ero sulla Pandona Aranciona a metano, sulla strada del ritorno a Bergamo, immaginando almeno sei libri che non parlassero di quel che vivo, ma solo dei viaggi che stanno dentro di me, i tre nello stomaco, gli altri due nella mia testa, il solo che mi arriva adesso fino in fondo al mio cuore.
Eppure non ce l’ho fatta a partire con nessuno di questi romanzi e manco ce la farò mai e devo anche dirglielo a mio padre. Non ce la faccio un po’ perché sono un giornalista, che significa che la sola cosa che per me è importante è la cronaca, ma soprattutto perché nella mia vita, ogni volta, la realtà supera la fantasia. La gente è meravigliosa. Non serve inventare, è già tutto lì, tra le esistenze, nei giorni, i miei e quelli degli altri.
E il caso ha voluto che a convincermene una volta di più sia stato proprio un incontro avvenuto subito dopo le chiacchiere con mio padre. Tra lui e la mia famiglia mi sono fermato da Anna, che ha un nome bellissimo, ma che è pure una donna stupenda, riccia, bassa, allegra e dolce, come la mia mamma. Da bimbini eravamo vicini di casa, lei più piccola di me di qualche anno, in quel tempo, quando essere del 1977 o del 1981 era sentirsi distanti più o meno mezzo secolo. Con lei nei nostri giochi a Lecco, in quel tappeto di sogni che va tra via Boccaccio, via Petrarca, il Vial Turati e l’oratorio dei Frati, c’era sempre Michele, gli stessi occhi di Anna, la stessa identica tenerezza negli sguardi.
Come tanti altri, io da Lecco me ne sono andato. Non so cosa cercassi, ignoro se l’abbia trovato, ma abito in un’altra città. Ho scelto altre luci, nuovi compagni, amori che non sanno nulla del mio cortile. Anna e Michele sono rimasti, identici a quando erano bambini, ancora accanto, sposati, ora con dei figli.
Guardando Michele, la stessa immensa comprensione di quando eravamo a giocare a nascondino, ascoltando la voce di Anna, per me era come stare in quella canzone di Eddie Vedder, che lui, che se ne è andato, guarda lei, che è rimasta, e intanto si chiede cosa l’abbia spinto a partire da tutto quel calore, lo stesso che sta intorno alle favole che si ascoltano tutti insieme da bambini.
In tanti della mia gente, quella del posto dove sono nato, hanno fatto questa scelta, restare nel nido. Un tempo li vedevo strani, che avevo sempre in mente che il segreto fosse andare, anche senza un vero motivo, proprio come nella canzone. Ora, dopo cento storie addosso, penso che non ci sia un bene o un male, ma che semplicemente “dev’essere così, che tutto quel che accade ha un senso”.
Matteo Bonfanti
Nella foto Anna, Michele e i loro bellissimi ragazzi