Per la seconda volta nella mia vita mi sono autocensurato. Di notte, con tutta la mia gente ormai a letto, mi sono messo a scrivere, giusto per passare la mia diciottesima ora quotidiana al computer. Verso l’una ho finito il mio pezzo, l’ho riletto e l’ho messo sulla mia bacheca di Facebook e pure sul mio blog. Mi pareva anche abbastanza normaloide, spiegavo alla cazzo le mie idee politiche in questo marasma che è il nostro Paese, un casino da sempre, ora al suo apice. Alcune parti facevano anche un sacco ridere.
Stranissimo per me, che da sempre mi alzo tardi, oggi ho aperto gli occhi alle 6 e 09. Ancora più strambo come, con addosso la voglia di spaccare del legno vivo con un’accetta bella grossa. Considerando che abito in città, più o meno in centro, mi sono immaginato cosa mi sarebbe capitato se avessi deciso di soddisfare i miei desideri mattutini. E mi sono visto in manette subito dopo aver abbattuto una quercia secolare al Parco Suardi. Già sono per tutti il Vestaglietta, quindi uno che non è al cento, ma al settanta, meglio non esagerare con le follie.
Così mi sono messo sul divano e ho preso il cellulare per leggermi due cazzate. E mi è capitato l’occhio sul mio ultimo articolo, appunto quello della notte prima. L’ho letto, a ogni riga mi veniva la goccetta di sudore che sento sulla fronte quando mi accorgo di aver scritto una minchiata. All’ultima frase ero sudato persino sulla schiena. E profondamente pentito. Mi sentivo un bastardello, un hater, un giornalista un po’ stronzo, un cattivo maestro e un pessimo padre.
Mi sono detto “povero me” e ho tolto lo scritto, che a un punto esprimeva un giudizio estetico su Silvia Romano, che invece penso sia una povera sceta e che il suo aspetto, come il mio, faccia parte della sfera de li cazzi suoi. Magari era che questa mattina pioveva, che a me fa sentire quell’attimino più malinconico, ma mi sono messo a pensare alla ragazza, sentendomi accanto a questa giovane donna che ha vissuto diciotto mesi di prigionia senza fiatare, mentre io scrivevo un giorno sì e l’altro pure lamentandomi costantemente come un orso polare del mio stato transitorio. Dovevo stare a casa a vedermi film e serie su Netflix, a giocare a Uno, a leggere romanzi d’amore, a fumare mozzi e a bermi Tennentsine, e mi faceva andare all’ostia col governo che non potevo fare l’aperitivo coi miei soci, partire col Pandone, giocare a pallone o andare allo stadio a vedere l’Atalanta.
Normale che Silvia sia quell’attimo confusa. Non è giusto che lo sia io, che mi batto da sempre per restare sempre e comunque umani. Dice Marta, che è una persona in gambissima, centrata, buona, pienamente in sagoma, “ma li leggi i commenti sotto ai tuoi pezzi? Ma non senti che questa cosa ci ha fatto perdere il minimo di umanità che avevamo prima?”. E fino a ieri io le dicevo “no, sapessi intervistare Giorgio, Marco e Andrea, tre giocatori dei dilettanti, che pensieri meravigliosi, che consapevolezza, che voglia di un mondo nuovo”. Poi, però, è successo anche a me, usando l’ironia in modo perfido, come Striscia la Notizia con Giovanna, qualcosa che una settimana fa mi aveva fatto tanto incazzare.
Non mi giustifico, non sono giustificabile, soprattutto per il ruolo che ho, quello di direttore di un giornale. Ma mi analizzo. E penso che l’odio che noi bergamaschi sentiamo ogni qual volta ci sia una vicenda legata ai nostri politici, appunto come la liberazione di Silvia Romano, sia legato alla confusione che viviamo dovuta alle parole in circolo.
Siamo una popolazione in stato di shock, perché non crediamo più a una beata mazza di quello che ascoltiamo. A febbraio ci dicevano che era solo un’influenzina un attimino più pesante e si è verificata una strage, poi che la scuola dei nostri figli si sarebbe fermata giusto una settimanella e non è mai più ripartita, quindi che l’epidemia sarebbe durata un anno e passa, ma ora negli ospedali non c’è più nessuno. Sempre, manco adesso, abbiamo la minima certezza dei numeri che ci vengono dati dalla nostra Regione sui contagi e sui morti. Nel frattempo i tanti che hanno fatto il tampone quindici giorni fa, non hanno avuto ancora l’esito. E la famosa cassa integrazione in deroga la prende una persona su dieci mentre le bollette continuano ad arrivare a tutti.
C’è qui da noi questa cosa, che ieri ha contagiato anche me, che è ancora più grave del corona, ed è la costante incazzatura che prova chi è rimasto all’improvviso senza certezze. Parlo di me, che credevo in tre o quattro cose, sempre quelle: che i nostri scienziati fossero il vangelo del nostro secolo, che la nostra sanità fosse la migliore del pianeta Terra, che i politici fossero gente che in qualche modo punta al nostro bene, pur facendo ogni tanto delle scelte opinabili, che i grandi industriali fossero come padri per i loro dipendenti. Le frasi in tv, ognuna opposta all’altra da parte dei vari virologi, che tra l’altro spesso prendono un mucchio di soldi dalle trasmissioni che li ospitano, i tanti racconti dei parenti delle vittime, il caso dell’ospedale di Alzano, quello del Vetril, la mancata zona rossa nella nostra provincia, i covid nelle case di riposo, ci hanno fatto crollare tutte le nostre brave certezze.
A questo si aggiungono due mesi chiusi in casa, nell’angoscia di rischiare di perdere il proprio posto di lavoro, a volte nella miseria, a sentire il terribile eco di un’ambulanza dietro l’altra, a leggere costantemente notizie deprimenti e fake news, che pure noi giornalisti non è che siamo una categoria formata interamente dai santi della famosa ultima cena. E senza manco il pallone, che una bella partita ti fa sganciare quell’attimo dai pensieri quando diventano brutte fissazioni.
Scusandomi con Silvia Romano, penso che qui da noi, a Bergamo o a Brescia, insomma dove c’è stato lo tsunami, ci aspettino mesi di profonda ricostruzione. Soprattutto dei nostri cuori.
Matteo Bonfanti