Tutte le componenti del calcio stanno da tempo interrogandosi sul fermo dell’attività agonistica e sulle possibilità di ripartire. Il movimento dilettantistico è enorme, coinvolge un numero significativo di atleti, a partire dai bambini fino ad arrivare ai massimi tornei di dilettanti ma anche agli amatori che continuano a rincorrere un pallone anche ad età avanzata. Una passione ma anche un impegno e, ce ne stiamo accorgendo in questo 2020 senza precedenti, uno strumento sociale di cui ora si sente pesantemente la mancanza e non solo per i meri risultati sportivi. Non sto parlando ovviamente dei professionisti, la cui attività è un vero e proprio lavoro, che muove interessi economici enormi ed ha mezzi che il movimento di base non può nemmeno osare immaginare. Nessuno sembra però occuparsi di una componente essenziale che ha la stessa dignità di giocatori e dirigenti: l’arbitro.
Un uomo spesso osteggiato, sempre con i fari puntati addosso del giudizio da parte di tutti, mosso non da denaro ma da passione pura. Non ha i tre punti in palio, non ha un allenatore che gli suggerisce cosa fare in campo, non ha un pubblico che lo sostiene nei momenti difficili, non ha uno spogliatoio dove condividere un thè caldo insieme ad altri compagni. Eppure qualcosa di forte lo muove quando il sabato o la domenica lascia a casa affetti, amici e si avvia verso il campo il cui indirizzo è scritto sulla designazione. Lì, sconosciuto, il più delle volte, tra sconosciuti, cerca di rompere il momento di formale rispetto di chi lo aspetta per mostrargli il suo spogliatoio. Mentre le squadre si riscaldano ripassa gli schemi (la famigerata diagonale spezzata), prova qualche scatto in campo indossando con orgoglio la tuta della federazione. Poi arriva l’appello (per gli addetti la cosiddetta “chiama”), altro momento “catartico” dove almeno una trentina di occhi lo osservano cercando di capire il suo carattere (esercizio impossibile anche al miglior psicologo sulla piazza). Ma poi la tensione si stempera, si scende in campo, pallone in mano verso il centrocampo, con il profumo dell’erba (quando c’è) che ti penetra le narici e gli fa ricordare che è su un campo di calcio, mentre spesso il campanile del paese emette i suoi rintocchi che sanno di casa e di aulico. Il freddo pungente, la pioggia battente o il calore insopportabile sono uno sprone per i ventitre atleti sul terreno. Si corre, si fanno falli, si sbagliano e si segnano gol, ma lui è sempre lì, cercando di stare vicino all’azione, a far capire che qualcuno deve applicare quel regolamento tanto semplice nelle sue diciassette regole quanto difficile da amministrare ed interpretare. Spesso pensa di conoscerlo solo il pubblico che non aiuta nelle decisioni, soprattutto quando il direttore di gara è giovane e inesperto. Alla fine la soddisfazione si racchiude in un “bravo arbitro” e una stretta di mano sincera da parte di un giocatore. Scaccia la delusione quando l’osservatore che gli bussa alla porta dello spogliatoio, mentre vorrebbe buttarsi sotto una doccia calda, gli fa ripercorrere i momenti salienti di una partita non finita bene (arbitralmente parlando). Esce e spesso è già buio, salutato ormai solo dal custode stanco di una giornata di gran lavoro. A casa, dopo magari un po’ di chilometri su strade trafficate e piene di gitanti della domenica, ha il rapporto da compilare, stando attendo a non commettere errori.
Anche questa categoria soffre il fermo del calcio dilettantistico perché toglie a questi ragazzi, uomini e sempre più donne il piacere di vivere ogni domenica quelle emozioni e quei riti che ho voluto velocemente ripercorrere, rammentando lontane ma ancora vive emozioni vissute in gioventù. Quando si ripartirà anche gli arbitri, ora costretti a mantenere in solitudine la propria integrità atletica, saranno ancora lì alla testa delle centinaia di squadre della nostra provincia a dare regolarità alle competizioni, per ripartire tutti insieme.
Giuseppe De Carli