La fase più dura del lockdown è alle spalle, anche se gli strascichi e le cicatrici sono ancora ben visibili. Bergamo si sta rialzando, e con lei la sua gente; anche lo sport sta cercando di ripartire, mettendo i primi paletti per il prossimo campionato. Abbiamo fatto due chiacchiere con coach Gabriele Grazzini, che è tutt’ora a Bergamo e sta lavorando “alla scrivania” per farsi trovare pronto quando suonerà la campanella del primo giorno di scuola della prossima stagione sportiva.
Coach, un pensiero su questo periodo.
“Da metà di febbraio in poi è stato un susseguirsi di eventi imprevedibili, ed abbiamo continuamente dovuto aggiustare la rotta per stare dietro alle indicazioni delle autorità. A Bergamo eravamo nel mezzo di un piccolo vortice che pian piano stava prendendo velocità: le zone rosse, gli allenamenti senza docce, le palestre che pian piano stavano chiudendo… All’inizio chiunque di noi diceva “è solo un’influenza” e voleva continuare a giocare ed allenarsi, poi ben presto ci siamo resi conto della gravità. Fino alla mattina del 9 marzo, nostro ultimo appuntamento insieme. Eravamo una squadra in grande crescita nel girone di ritorno, avevamo tutti la netta sensazione che ci saremmo salvati sul campo. Ho ancora i brividi se ripenso a quei giorni ed a quello che è successo dopo. Sono stati due mesi di lockdown dei quali faccio fatica a parlare, sono ancora scosso. Adesso mi capita di trovare le piste ciclabili piene di famiglie, e di trovare gente a passeggio sulle mura di Bergamo Alta anche “ai miei orari improbabili”, tipo le 2 di notte. Lo dico sottovoce: simbolo di vita e di rinascita. È bellissimo.”
Come si è trasformato il tuo lavoro prima, durante e dopo la quarantena? Come pensi sarà la ripresa?
“Prima le mie mansioni erano divise fra scrivania e campo: preparare allenamenti e partite, aiutare i giocatori a migliorarsi, aiutare il gruppo a crescere, supportare gli stranieri con la lingua e la cultura. Finito il campionato mi sono tuffato nell’esaminare cosa ha funzionato e cosa non ha funzionato di questa quasi-stagione, cercare di conoscere giocatori e squadre che non avevo visionato in inverno, aggiornarmi e migliorare come allenatore. Manca il confronto quotidiano con lo staff e i giocatori, respirare la stessa aria. Come sarà la ripresa è difficile ipotizzarlo ma lo stiamo studiando, le vibrazioni che ti dà l’agonismo ed il contatto con la squadra sono irreplicabili. Viviamo in un paese, l’Italia, che ha nei propri punti deboli la bassa qualità degli impianti sportivi, anche ad alto livello. Già prima, la struttura dei parcheggi, gli accessi alla tribuna, la qualità dei posti a sedere, il clima, erano spesso motivi di poca comodità… Figuriamoci cosa può succedere adesso, e a cascata nelle serie minori e nei vari campionati giovanili. Dovremo essere bravi tutti, sportivi e burocrati, a fare uno sforzo per rendere davvero sostenibile e accattivante un bene di tutti”.
Quali dinamiche cambieranno per chi, come te, organizza un camp estivo all’estero?
“Nell’immediato noi di Fullcourt abbiamo preso la strada più drastica, meno remunerativa per noi, ma più sicura per i ragazzi: abbiamo messo i nostri camp del 2020 in stand-by e siamo attivi solo sul fronte delle borse di studio per cestisti/e e pallavolisti/e negli Stati Uniti. Stiamo però studiando le varie misure di sicurezza e contiamo di tornare in campo con i ragazzi al più presto, ce lo chiedono le famiglie che da tanti anni si fidano di noi. Una piccola anticipazione: sto studiando per concretizzare un evento con il binomio BB14-Fullcourt, saremo pronti quando ci saranno le condizioni per realizzarlo al meglio. È già successo in altre piazze in cui ho allenato (fra cui Forlì, a cui partecipò anche Josh Jackson, all’epoca fromboliere della Pall. Forlì 2015) e mi spiace non ci siano stati ancora i presupposti per farlo qui. Ma sono fiducioso, sarei felice di dare questo piccolo contributo al basket della città in cui mi trovo.”
Il bilancio personale dopo un anno vissuto sotto le Mura.
“Come diceva Steve Jobs, “Connect the dots”: fin da bambino ho sempre avuto un debole per la Lombardia, che negli anni ho scelto nelle varie ricerche scolastiche. In seguito, nelle mie prime esperienze da responsabile di settore giovanile, ponevo grande attenzione alle parole del compianto Mino Favini riguardo il suo modello-Atalanta. Con il tempo ho coltivato diverse amicizie in questa terra, e ho lavorato a Mantova e Montichiari. Finalmente a luglio 2019 ho avuto la possibilità di firmare un biennale a Bergamo, ma non sono quasi mai uscito dal tragitto casa ufficio-campo: ho convissuto con il senso di colpa di dover sempre dare qualcosa in più a Coach e Squadra per cambiare il corso degli eventi. Confesso che durante il lockdown mi sono lasciato andare in camminate solitarie a notte fonda per le strade di Bergamo Alta. In seguito, sono “uscito allo scoperto” e ho trovato tempo da dedicare a passeggiate e giri in bicicletta, anche in compagnia, per borghi e sentieri: non ne ho mai abbastanza. Sono toscano e caratterialmente possiamo sembrare due mondi lontani, ma se è vero che nei momenti duri scopri la natura delle persone, adesso ho capito che i bergamaschi non si piangono addosso, sono grintosi, e non mollano mai, mai, mai… proprio come me! Semplicemente gestiamo gli accenti in maniera diversa!”