L’anno scolastico è ormai concluso e diventa un imperativo sottolineare come la società civile, quasi con noncuranza, abbia deciso di dimenticare che cosa comporti il non andare a scuola. Solo in rari casi, magari sussurrandolo e senza mostrare i denti, come si è altresì fatto nel caso di ristoranti, viaggi e vacanze, si è preteso di portare a galla le istanze della scuola e, più in generale, di un mondo chiamato ad anteporre la relazione diretta, fatta di contatti e presenza fisica. Quel che è peggio è che, senza scuola, la fatidica quadratura del cerchio, in termini di orari, scadenze, coinvolgimento di determinate componenti – prima su tutte, i nonni – è apparsa lontanissima. Ma evidentemente, per tanti, a partire dalle istituzioni, l’oggettiva difficoltà non è sembrata uno scoglio poi tanto insormontabile. Del resto, cosa si può pretendere da uno Stato che anziché porre credibili soluzioni-tampone, per arginare una crisi economico-sociale che oggi è soltanto agli inizi, ha preferito affidarsi agli appelli, facendo leva sul buonsenso e su un senso della paura che, al netto di ogni percezione, regna e regnerà sovrana? Nel concreto, quelli che sono finiti nel dimenticatoio si sono in realtà rimboccati le maniche e, attingendo alla loro dimestichezza con i supporti tecnologici, sono virtualmente entrati nelle case di milioni di italiani, dando vita a videolezioni tarate, per forza di cose, sulle diverse età dello sviluppo. Se l’emergenza ha toccato relativamente i ragazzi delle Scuole Superiori, gli “smanettoni” per antonomasia, dunque già avvezzi agli strumenti multimediali, un discorso ben differente spetta per i bambini della Scuola Primaria, alle prese con una scuola senza precedenti; fatta di voci e sguardi filtrati da uno schermo, ma fatta anche di un’oggettiva incognita, legata alla disponibilità dei genitori, chiamati da par loro a dedicarsi ai più svariati ambiti. Il lavoro, magari proprio in Smart Working; la necessità di tenere a bada un ambiente domestico particolarmente affollato, alla luce delle restrizioni imposte con il propagarsi della pandemia; la relativa penuria di telefonini, PC o tablet, dinanzi alla generale impellenza di restare connessi, oltre che aggrappati alla realtà. Per mamma e papà, l’affiancarsi al proprio figlio, lungo un apprendimento che è primariamente un fine e uno strumento di crescita, sulla strada che porta all’autonomia, è stato un momento unico nel suo genere. Nel bene e nel male. Tanto che ci si chiede se la pagella, in quanto metodo di valutazione ordinario, possa avere un senso se posto al servizio di un contesto totalmente straordinario, quale quello odierno. Ma al dunque, è il bene o il male a prevalere? Prevalgono i pro sui contro, o viceversa? Prevale il senso di inclusione, in funzione del fatto che, nonostante tutto, la scuola sia rimasta a portata di click? Oppure di esclusione, alla luce dell’impossibilità di garantire un servizio efficiente, realmente su misura, per bambini e ragazzi affetti da problematiche dello svariato tipo? Va da sé che i bambini di Quarta e Quinta abbiano goduto regolarmente di alcune ore giornaliere di istruzione, a fronte della scomparsa dai radar degli alunni più piccoli, in particolare disagio di fronte al mezzo informatico e dunque alle prese con un ritardo nel processo di apprendimento delle competenze più elementari: su tutte, lettura e scrittura. Naturalmente la materia è stata dibattuta, invero più tra gli addetti ai lavori che dall’informazione main stream, più interessata a raccogliere le istanze di bagnini, albergatori e ristoratori: come se la Lombardia fosse bagnata dal mare. Al netto delle polemiche, che comunque la si veda trovano il tempo che trovano, con una società da civile da ricostruire e tanti cocci fatti di morte, disperazione e le desolanti condizioni della Sanità pubblica, il quadro che scaturisce appare tormentato, oltre che figlio dei tempi che corrono. Tutti contro tutti: insegnanti contro genitori, scuola pubblica contro scuola privata, famiglie abbienti contro famiglie più disagiate. La verità è che ancora una volta la forza dei fatti è coincisa con la forza della ragione. Solo chi si è calato in trincea può sapere davvero come è andata. Solo chi è fuggito dalla tentazione della polemica e della pigrizia, a fronte del “Cambiare tutto, per cambiare niente”, può davvero vantare delle soluzioni che, in sede di bilancio, sono in grado riportare il sorriso, in coincidenza con il termine delle lezioni. Al dunque, è stata dura, ma il successo delle videolezioni e della tanto dibattuta Didattica a Distanza è dipeso da un fattore principale: la capacità di fare gruppo. Solo ripristinando, anche se fisicamente lontani, le premesse più proprie verso l’ottimale gruppo di lavoro, vale a dire intesa, affiatamento e compattezza, si può sostenere di aver compiuto un buon lavoro. E quest’aspetto non va considerato a scompartimenti stagni, secondo la logica del “Noi vs. Voi”; bensì secondo il principio dei vasi comunicanti. Non si può sostenere tout court che gli insegnanti si siano comportati meglio dei genitori, o viceversa. Si può semmai constatare che laddove si sia data prova di ascolto, comprensione, fiducia e naturalmente pazienza, l’anno scolastico volge al termine con nuove incoraggianti consapevolezze. A partire da un team di insegnanti coeso e determinato, votato alla competenza ma, soprattutto, al benessere dei bambini. Ma partendo anche dai genitori, dei quali abbondano esempi virtuosi e positivi, a fronte della cronica crisi delle famiglie. Per un docente che propone, ci sono mamme e papà che ascoltano, risaltando da supporto pratico, oltre che da propaggine per determinate linee educative. Sia chiaro, solo alcune, non tutte: perché le famiglie non possono permettersi di appaltare l’educazione dei propri figli. In direzione opposta, laddove mamme e papà arrivino dove possono, con una consapevolezza dei limiti che è primariamente onestà e trasparenza, gli insegnanti non si affidano alle proprie esclusive forze, ma alla verve, all’inventiva, all’esperienza che solo il gruppo di lavoro è in grado di garantire. E dunque dialogo e rispetto, dei ruoli e dei rispettivi ambiti di competenza, alla base di una scuola che, in quanto tale, al di là della disponibilità dei supporti informatici, deve restare diritto di tutti. Diritto, per chi, da una parte, esercita la professione di insegnante o educatore, e dunque ne ha fatto un lavoro e una fonte di reddito, ma anche un motivo di tutela e di rivendicazione, contro ogni sfruttamento. Dall’altra, per chi a settembre tornerà a sedersi ai banchi con le mascherine, il diritto all’istruzione; perché andare a scuola e completare i cicli scolastici risulti davvero il passo decisivo, verso l’arricchimento umano, prima ancora che professionale. E allora chiudiamo l’anno, traendo i dovuti spunti dal triste epilogo cui siamo andati incontro, per quanto concerne lo stato della Sanità pubblica nel Belpaese. Davvero troveremo un sostanziale e diffuso miglioramento, con il passaggio di consegne dal pubblico al privato? Non è forse ora di tornare a concedere uno sguardo, critico ma pur sempre lucido e analitico, su quanto succede nella scuola pubblica? Anziché cambiare tutto (per non cambiare niente), non è ora di prendersi a cuore il bene (e il servizio) pubblico?
Nik
venerdì 5 Giugno 2020