Ora io non voglio apparire come quelli che postano la foto dell’assembramento duro e puro in Città Alta per poi scrivere un commento scandalizzato, tipo “non abbiamo capito un cazzo, non ci salveremo mai, aiutoooo”. Lo facessi, mi sentirei identico al famoso ragazzo alto e biondo come la birra, che spende la sua vita a fare il frocio col culo degli altri. Da due giorni mi passano gli atti di denuncia su facebook, uno in fila all’altro, e ogni volta mi dico tra me e me: “Ok, ok, fai il vigilantes e ci può stare con la strizza che ci siamo presi. Solo questo: ma tu dove minchia eri quando c’era tutto sto casino? Anche tu in via Colleoni… Ti incastra la fotografia che hai scattato. Quindi, alla fine della fiera, sei arrabbiato con te stesso”.
E pure penso che questa cosa brutta che ci è capitata, ce ne abbia data un’altra che a me, che di lavoro scrivo, piace da matti, la consapevolezza che si vive per raccontarla. Leggo sui social i pensieri di giornalisti, operai, calciatori, baristi, mamme, papà, mariti, mogli, separati, imprenditori e pensionati, gay, lesbiche e trans, ragazze dalla riconosciuta moralità come allegri puttanoni, tutti che raccontano la stessa grandezza e le medesime miserie. Cambia l’occupazione, la metratura dell’appartamento, il numero dei figli, i soldi che si hanno nel portafoglio, le spiagge dove andremo in vacanza se la situazione migliorerà. Non il cuore.
In questo tempo, a Bergamo, ognuno di noi ha sentito le stesse preoccupazioni, quella di ammalarsi seriamente o di vedere malato qualcuno che amiamo, e quell’altra, proprio di adesso, di perdere il proprio posto di lavoro in un marasma che sembra infinito. Così i bisogni, identici, uscire almeno un pochino in natura, passare una serata al bar coi soliti quattro amici, vedersi un partitone o un concertino.
Uguali i nostri ragazzi. E mi ricollego a prima, non la racconto per puntare il dito contro di loro, tutt’altro, solo per farmi due risate con gli altri genitori, che immagino da mesi messi come me, sulla mia stessa barca, quella assai traballante dell’istruzione ai tempi del coronavirus.
Mi alzo questa mattina e guardo i miei tre tesori, impegnati, si dice così, nelle famose lezioni on line. L’elemento che sta in camera, Vinicio Bonfanti, terza media, ormai prossimo ai 14 anni, recentemente diventato comunista, pallanuotista, carino forte, da sempre bravino a scuola, sta a chattare coi suoi soci al telefonino, iphone nascosto sotto la scrivania, mentre una prof, brava brava, gli spiega l’immenso valore del Manzoni per la nostra letteratura. L’elemento in sala, che si chiama Miranda Zuluaga Gomez, è la mia nipotina diventata nipotona. Secondo anno delle medie, ragazza in gamba, che ieri ha studiato fino a mezzanotte, è invece armata di due cellulari. Sul primo passa la videoconferenza di un docente innamorato della matematica, sull’altro i figoni che fanno i fashion blogger, che paiono tutti Michael Di Chiaro, un collega simpaticissimo, juventino, bello e impossibile. L’ultimo elemento, Zeno Bonfanti, undici anni, piccino picciò, furbetto, ormai prossimo a diventare un punk di un certo livello nei peggiori bar di Caracas, è stesso sul divano, in una mano il telefonino, l’altra tra i coglioni, come noi masculi quando entriamo in modalità estremo relax. Sbigno un po’ e mi accorgo che il ragazzino sta guardando una serie di video realizzata dai sommi maestri di Fortnite, Ciccio Gamer e gli altri. Gli chiedo: “Ma tu, popino? Non hai scuola?”. E lui, fiero: “Sì, vieni a vedere…”. Sul suo pc, nascosto tra le pieghe del nostro lettone, c’è il viso di un giovane professore, credo di musica perché sorride un sacco. Sudatino, sta spiegando. Tra le faccine di chi ascolta, ecco quella di Zen. “E’ registrata, ho fatto il video una settimana fa, così sono più libero quando c’è qualcosa che non è importante”.
Ah bé, si bé. In un misto tra sconcerto ed estrema soddisfazione per via della capacità che hanno i miei popi nell’utilizzo delle tecnologie, vado dal Gamba a comperare le sigarette. E nei cento metri tra andata e ritorno penso al da farsi: menargliela o far finta di niente col casino che hanno passato gli adolescenti italiani negli ultimi sessanta giorni?
E mi accorgo che è il discorso di prima, che cambia ogni cosa intorno a noi, ma noi siamo sempre gli stessi, tutti uguali, le stesse grandezze, le identiche miserie. E mi rivedo alla loro età, in classe. Stavo lì, in mezzo ai miei compagni, a leggermi Cuore e la Gazzetta sotto il banco, a scambiarmi bigliettini con il mio compagno più simpatico, il mitico Macca, a mandare poesie a Elisa, la figona che non mi cagava manco di striscio. Come loro, al telefono.
E mi faccio il caffè. Aspettando che venga su, mi metto ad abbracciare Vini, Ze e Miri, i miei tre ragazzi, che solo ieri erano poppanti e ora sono grandi grandi. E mi viene quella malinconia, la voglia di rivedermeli col biberon, abbracciati stretti stretti sul divano mentre guardiamo il Re Leone. E mi dico si potesse, ogni tanto, che ne so anche solo una volta all’anno, magari per una piccolissima settimana, tornare indietro dieci anni.
Matteo Bonfanti
Nelle foto: in alto Zeno, nell’articolo Vinicio e Miranda