Oggi mi sono ricongiunto con mio babbo, Marco, che è in vetta alla classifica dei miei congiunti a pari merito con mia mamma. Non lo vedevo da fine febbraio, che ero stato a trovarlo proprio all’inizio del casino. Allora era stato strano, avevamo parlato tanto del coronavirus. Tutti e due pensavamo che sarebbe stata una cosa da niente, un’influenza un attimino più pesantina di quella degli anni scorsi e che la misura di quei giorni là, quella di chiudere i bar alle sei di sera, fosse qualcosa di eccessivo, da stato di guerra, una scelta balorda di governanti eccessivamente preoccupati per la nostra salute. Ci sbagliavamo.
Col mio vecchio in questi settanta giorni lontani ci siamo sentiti. Al telefono, più o meno una volta la settimana, spesso una pena, che né io né lui diamo il meglio al cellulare. Entrambi scriviamo, io articoli, lui poesie, siamo due da parole su un foglio, mai nell’etere che gira intorno. Nel caos corona le nostre chiamate si sono risolte quasi sempre in dieci secondi netti, un cambio gomme della Ferrari. “Stai bene?”, “Sì, dai, me la cavo. E tu?”, “Vabbeh, non posso lamentarmi, non l’ho preso, speriamo, che ci sono tanti che muoiono e che stanno male”, “Dai, papi, sperem”. E poi due ti voglio bene finali, prima il mio, poi il suo, ogni volta in quest’ordine, che è pure quello naturale: il figlio lo dice al babbo, il babbo lo ripete al figlio e si va a letto tutti contenti perché si sa che c’è qualcuno che ti ama e che ti amerà sempre, comunque vada, anche scapestrato, pure da vecchietto.
Così oggi, appena l’ho visto, ero emozionato. L’ho trovato in forma, felice, a spadellare. Parlavamo fitto mentre tentava una minestra di spinaci, che lui tra i fornelli si diverte un sacco nonostante fa la vittima con sua moglie, Angela. Insomma Marco Bonfanti, ex maestro elementare, ora in pensione, è di nuovo lui, senza più la sottile e grigia malinconia che ci ha preso a tutti noi lombardi in questo periodo. Rideva perché era pronto a passare l’intero week end divanato e col telecomando in mano a vedere l’intero turno della Bundesliga, tornando a scommetterci sopra qualche euro. “Sai, Matti, il calcio mi è mancato. Vanno bene persino i crucchi, che giocano così, alla cazzo, violenti, senza la nostra poesia e la nostra qualità, privi del nostro genio, ma chissenefrega”, “e beh, babbo, lo dici a me che faccio il giornalista sportivo?”. Poi abbiamo parlato di politica, di chi sta in Regione e di chi sta al governo, quindi degli ultimi film che avevamo visto, io Mr. Nobody su Netlflix, lui Favolacce su Sky. Ce li siamo raccontati dall’inizio alla fine. Ci siamo guardati un sacco, negli occhi uguali che abbiamo, celesti. E’ stato bello. E’ stato normale. Come prima del coronavirus.
Verso le cinque mi sono rimesso in maghina. Io e il mio Pandone Arancione a metano ascoltavamo le peggio canzoni italiane degli anni Sessanta. Sulla radio è passata persino “Ciao mare”, il capolavoro di Raul Casadei, la mia preferita, che io non so bene perché, ma mi esalta, E, quando suonavo da ragazzo, che ero brutto, sporco e cattivo, la facevo ai concerti arrangiandola punk. Ed era la prima volta dopo un sacco di tempo che non cantavo a squarciagola sulla Pandona ed era tanto tanto che io e la mia bella macchinina non stavamo insieme senza preoccuparcene. Le ho parlato, sottovoce: “Mi sei mancata”. Ho ascoltato i suoi pensieri e lei mi ha subito risposto: “Pure tu, bellino mio”. E io: “Ti va di farci un giretto a Brivio?”. E lei: “Ma certo, Matty, che come te il nostro fiume non lo vedo da un sacco…”. E siamo finiti sull’Adda, che io avevo voglia di bermi la Tennents che avevo lasciato lì l’ultima volta, nel solito vaso al Tof, all’inizio di marzo. Che dire? Solo che il mio fiume è rimasto identico, la stessa immensa accoglienza, gli identici sorrisi che mi ha regalato in tutta la mia vita. Come prima del coronavirus.
Mezzoretta dopo eravamo in strada. A Cisano il solito treno, le pale abbassate al passaggio a livello. Poi l’immancabile immenso camion dell’Italtrans, gigante e a sette all’ora di crociera, con me subito dietro, in coda, con lo stronzo col Suv Mercedes a strombazzarmi, facendomi quel gesto “sei tarato che non superi”. E io, che non ho mai imparato a guidare, a giustificarmi, chiedendogli scusa con le mani. Così a Pontida mi sono fermato, due minuti due sul Sacro Suol per lasciarlo passare. Tutto uguale, la solita storia, i compagni che cambiano la scritta “Padroni a casa nostra”, togliendoci la P e mettendoci la L, i leghisti che la sistemano. Come prima del coronavirus.
Ora io sono grafomane, chi mi ama, chi mi ha amato, i miei lettori, chi frequenta il mio blog, lo sa. Scrivo perché mi piace da matti, per il bisogno sentito da ragazzino di battere sui tasti, come fosse un piano. Ma ultimamente anche per altro, per sentirmi accanto alla mia gente, un popolo che ha sofferto, che è quello bergamasco, bresciano, lombardo, mai così vicino, ogni volta cercando di capire se quello che sento è solo mio, e allora va beh, è una favoletta, oppure se i miei pensieri sono quelli di molti.
Solo questo: ora che è tornato tutto uguale a prima, io mi sento diverso.
Matteo Bonfanti