Prima gli ultrà dell’Atalanta, poi quelli del Napoli, l’idea delle due storiche tifoserie organizzate è la stessa: far ripartire la Serie A sarebbe un affronto nei confronti delle famiglie dei tanti morti per l’epidemia di coronavirus in Italia. Da fonti interne alla stessa curva nerazzurra se le squadre del nostro massimo campionato nazionale dovessero tornare a scendere in campo, potremmo anche assistere a una serie di proteste clamorose, a Bergamo come nel resto d’Italia.
Si vedrà. Legittimo il pensiero delle due curve, ma anche quello di tante altre persone che vogliono un ritorno in campo anche e soprattutto per salvare il proprio posto di lavoro. Perché se è vero che per Cristiano Ronaldo o per il Papu Gomez prendere o non prendere quattro mesi di stipendio non è un problema, per molti del settore e per le loro famiglie è un dramma già cominciato. Parliamo dei 250mila lavoratori di un settore che è la terza industria italiana per fatturato, che contribuisce per il 7 per cento alla crescita del pil italiano e che versa all’erario qualcosa come nove miliardi di euro all’anno. E se i grandi giornalisti, parliamo ad esempio di Caressa, hanno stipendi che li mettono al riparo da qualsiasi stop, non è lo stesso per i cameramen o per i colleghi di televisioni o di media, giornali e siti, ben più piccoli. Identico discorso va fatto per i parecchi colleghi che collaborano agli uffici stampa dei club o per chi ha un bar che fa vedere le partite o per chi ha un negozio che vende le magliette, senza dimenticare le altre centinaia di migliaia di lavoratori in questa straordinaria filiera che è il pallone.
Senza prendere una posizione sulla questione, soprattutto in un momento così complicato sia emotivamente che economicamente, l’idea è che saranno gli esperti nazionali in materia sanitaria a decidere se e quando si potrà ripartire. Non le curve né i lavoratori del settore.
Matteo Bonfanti