Il sottofinanziamento del sistema nazionale pubblico, la mancanza di un’educazione all’emergenza e i risicati fondi alla ricerca. Il professor Giuseppe Remuzzi, direttore dell’istituto di ricerche farmacologiche “Mario Negri”, titolato medico dalla caratura internazionale ed ex primario di Nefrologia e Dialisi all’ospedale Papa Giovanni XXIII, non ci gira molto intorno: questi sono i tre nervi scoperti responsabili dell’inadeguatezza con la quale ci siamo trovati ad affrontare l’epidemia Covid-19. Nonostante infatti fosse noto da 20 anni da parte della comunità scientifica che lo spettro di una possibile pandemia, successiva a quelle della Sars e dell’Aviaria, fosse dietro l’angolo, siamo comunque riusciti ad arrivare impreparati. “Purtroppo, nonostante questa possibilità fosse conclamata – spiega il professor Remuzzi -, non siamo stati in grado di arrivare preparati. Lo hanno fatto solo i Paesi dell’Asia dell’Est, più sensibili al problema poiché generalmente più colpiti. Ma l’Italia, come la Francia, la Spagna e anche la stessa Inghilterra che vanta le migliori scuole epidemiologiche del mondo, erano totalmente impreparate. Tutto il mondo occidentale è caduto sotto i colpi della pandemia, tutti tranne la Germania. Perché? Perché i tedeschi, diversamente dagli italiani e dal resto degli europei, hanno saputo, negli anni, costruire una politica forte in termini di sanità pubblica e di ricerca che vanta, ad oggi, numeri impressionanti rispetto ai nostri. Basti pensare ai letti in terapia intensiva, alle scelte fatte sulla medicina di base e sulla territorialità della stessa, o al numero degli infermieri, che è dieci volte il nostro. Capisce bene che, con alle spalle un’organizzazione come quella tedesca, è più facile gestire l’emergenza e non subirne i colpi che abbiamo subito noi”.
L’epidemia ha causato un’emergenza nell’emergenza e le ragioni delle svariate e gravose difficoltà sono da ricercarsi, secondo Remuzzi, nell’inadeguatezza del nostro sistema sanitario: “E’ impossibile pensare di gestire una sanità affidandosi unicamente ad una visione ospedalocentrica. Bisogna, al contrario, avere a disposizione unità mobili, essere presenti sul territorio, tornare ad avere una visione vera e concreta della medicina di base, visione nella quale il medico di base torna a visitare i pazienti anche e soprattutto a domicilio. Il territorio e le sue figure devono essere protagonisti assoluti, il territorio deve riprendere assolutamente la sua centralità operativa. Bisogna tornare a lavorare con i distretti, come si faceva una volta. Infatti, le regioni come ad esempio il Veneto e la Toscana che adottano ancora questo metodo, hanno trovato una risposta molto più efficace al problema, riuscendo a gestirli molto meglio e con danni più contenuti dei nostri”.
Remuzzi focalizza il discorso sulla necessità di rivoluzionare un sistema: “Noi abbiamo a disposizione medici molto bravi e competenti, quindi il problema non è sulla competenza del singolo, ma sull’organizzazione generale, sulla struttura. I nostri medici di base sono stati mandati allo sbaraglio, non avevano nessuna forma di protezione e questo, purtroppo, ha generato anche molte perdite. Bastava fornire a loro i dispositivi di sicurezza e insegnargli ad usarli. Il 90% dei medici che lavorano in ospedale, quelli che tutti vedono nelle foto vestiti tutti bardati, non hanno contratto il virus. Questo vuol dire che, con una corretta educazione e certamente con i mezzi a disposizione, anche gli operatori in prima linea avrebbero accusato molto meno la situazione, evitando di ammalarsi o addirittura di morire per Covid. Quando la sanità pubblica è efficiente, serve poco per gestire l’emergenza. Ad esempio, come accade in molte altre città d’Italia, sarebbero state molto utili le unità mobili; è impensabile non esserne dotati. Sono strumenti che garantiscono la possibilità di intervento sul posto, soprattutto a livello domiciliare, dotate di ossigeno, di strumentazioni per eseguire lastre al torace o ad altri organi e tanti altri macchinari che consentono al medico di poter intervenire immediatamente, prima che la situazione si aggravi tanto da dover poi portare il paziente in ospedale in condizioni gravi. Bisognava e bisogna prevenire attraverso la medicina generale, quella di base ed evitare che il pazienti venga portato in ospedale quando il virus è già entrato in circolo nel sangue. In questo modo si può intervenire prima e, nel caso dell’epidemia, sarebbe stato fondamentale”.
Oggi, dopo più di due mesi dal primo focolaio, fortunatamente la situazione è cambiata: il numero degli ospedalizzati tende a diminuire giorno dopo giorno, così come la mortalità. E questo fa sì che la politica pensi alla Fase 2 che inizierà proprio da domani: “Diciamo che in questi mesi abbiamo capito molto del virus, diversamente dall’inizio dell’epidemia quando non sapevamo assolutamente nulla. Oltretutto il virus sta cambiando, non muta, e la ragione non la conosciamo ancora, ma è meno aggressivo di prima. Sempre più persone sviluppano gli anticorpi e possiamo dire che sul nostro territorio si è raggiunta una sorta di immunità di comunità stimabile tra il 60 e l’80% della popolazione. Per tutti questi motivi, si può pensare ad una quarantena più ragionata. Stare chiusi in casa andava bene solo all’inizio perché si era diffuso il panico, eravamo impreparati e non c’era altro metodo per contrastare un virus che non conoscevamo. Ma ora basta. Si tratta di una pratica, di un metodo medioevale che, se non ripensato, porterà a nuovi malati e a nuove emergenze, questa volta legate alla povertà, alla fame, al conflitto, ad una situazione economica peggiore di quella del ’29. Bisogna intervenire mitigando la pandemia, cioè tracciando i positivi e i malati attraverso gli strumenti che abbiamo a disposizione come i tamponi, i test sierologici e i test Elisa e seguendo i pazienti fin dai primi sintomi, a casa, con tutti gli strumenti necessari che ad oggi conosciamo”. A tal proposito, Remuzzi ci racconta dei test messi a punto dall’istituto: “Abbiamo elaborato un test rapido che testeremo per primi sui circa 200 ricercatori delle sezioni di Bergamo e di Ranica, test che poi metteremo a confronto anche con quelli dell’università di Bologna. Serviranno chiaramente per evidenziare la presenza di anticorpi Covid e, una volta provati sui nostri ricercatori, li testeremo sui dipendenti della Brembo e della Ferrari. Come dire, partiamo con l’acceleratore schiacciato ma anche con il freno un po’ tirato”.
Per Remuzzi, il tempo delle parole è finito, questo è il momento dei fatti: “Bisogna subito pensare ad una riorganizzazione del sistema, questo è il momento di prendere delle decisioni e lo deve fare la politica. E’ giusto affidarsi al parere degli scienziati, ma magari anziché ascoltare tanti pareri, è meglio scegliere tre persone a cui affidare l’incarico per farsi aiutare. Ma ripeto, questo è il momento in cui i politici devono scegliere, devono decidere, perché il sistema sanitario va completamente rivisto”. Ed è un obbligo e un dovere anche nei confronti delle generazioni future: “Noi dobbiamo pensare non solo a non ammalarci e a noi stessi, ma anche alle prossime generazioni, ai nostri figli e ai nostri nipoti. Già abbiamo distrutto l’ambiente, se ora vogliamo pensare di distruggere anche l’economia, continuando a rinchiuderci in casa anziché pensare ad una quarantena differente, facciamo pure. A loro non garantiremo la possibilità di vivere una vita vera”. E pensare ad una fase 2 è necessario anche in virtù dello stato di salute delle strutture sanitarie che prima erano sature e ora fortunatamente no: “L’80% dei pazienti accolti ad oggi negli ospedali magari, sì, è positivo, ma ci va per patologie completamente diverse dal Covid, ci va per gli stessi problemi per cui lo raggiungeva prima”. E poi c’è il tema del vaccino, con continue notizie che arrivano da tutto il mondo: “A mio parere dovrebbe essere prodotto su larga scala, mondiale, anche se questo significherà enormi quantità di dosi con evidenti lunghissimi tempi. Quindi è più verosimile pensare alla maggior produzione possibile, grazie anche ai filantropi come Gates che si sono fatti avanti per finanziare l’operazione, partendo però dalla somministrazione ai soggetti più a rischio come gli operatori sanitari, gli anziani, le persone più fragili e i cittadini che per lavoro sono a stretto contatto con il pubblico, penso ad esempio agli autisti dei pullman o alle cassiere. In questo modo, ammalarsi diventerà davvero molto difficile, perché il virus farà fatica a diffondersi. C’è un dato da non trascurare in tutta questa analisi: il 96% dei morti da Covid aveva più di 60 anni e non era sano, parliamo di persone che avevano già sviluppato altre patologie a cuore, reni, polmoni, oppure con il diabete. Questo ci dice che il virus si è sì presentato in maniera molto aggressiva, è molto più virulento di una normale influenza, ma è meno pericoloso di Sars ed Ebola. Tradotto in termini di vita comune, se in questa fase 2 saremo in grado di mantenere le giuste distanze di sicurezza e utilizzare correttamente i dispositivi, potremo vivere una vita normale e convivere con il virus”.
M.P.