di Matteo Bonfanti

Per la prima volta le pippe di noialtri di sinistra contro un leader del Pd non mi trovano allineato. E non è che sto rincoglionendo: far casino tra gli iscritti mi piace ancora tanto, dividere le truppe insinuandogli il dubbio che D’Alema voglia fregarli un’altra volta, attizzarli sul marxismo, sulle ragioni dei sindacati, sui partigiani traditi. Eppure sto giro sono dalla parte di Renzi che ha riesumato la salma di Berlusconi. Mi spingo anche più in là: scrivo a Matteo via facebook, gli invio frasi tenere e carine invitandolo a non mollare: a continuare a chiacchierare col Caimano, a stargli vicino, a volergli bene come fa un bravo figliolo con l’anziano babbo.
E non lo faccio perché l’attuale segretario dei Democratici ha il mio stesso nome di battesimo e pure la mia età. Non c’entra neppure che Matteo sia carino e col giubbottino nero somigli anche un po’ a Fonzie che da sempre risveglia il mio latente, ma comunque assai presente, lato gay. Difendo il sindaco di Firenze perché intravedo nel suo tentativo qualcosa di più grande della semplice resurrezione di una mummia della Seconda Repubblica, un’idea che nella testa di noi Bonfanti-Campagni si fa strada ormai da anni: Silvio è comunista ed è ora che confessi, che faccia outing a reti unificate,  scusandosi, in primis, con la mia famiglia che in questi quattro lustri ha detto e non detto agli amici più stretti. Quando abbiamo rivelato, non ci hanno creduto mai, spesso definendoci degli sparaballe nonostante avessimo un asso nella manica: lo zio Nino, maggiordomo ad Arcore.
Presentiamo, quindi, ai nostri lettori la carta vincente del nostro ragionamento sul kompagno Silvio: ecco Antonino, fratello minore di mia nonna Giuseppina, nato a Sant’Agata Bolognese, fisico forgiato da lunghe estati a nuotare nelle località più in della Riviera (Zadina di Cesenatico e Pinarella di Cervia), animo fine, autore tra le altre cose di un libro di poesie dedicate alla luna. Antonino è anche un uomo (moderatamente) di sinistra nonostante suo padre, mio bisnonno, fosse un destro del tipo “quando c’era il Duce i treni arrivavano in anticipo, l’erba era verde, gli amici veri, le donne più carine, il vino migliore, l’agnello saporito, il cane mansueto, il gatto coccolone”.
Lo zio Nino viene scelto da Silvio alla fine degli anni Ottanta in circostanze misteriose, mai del tutto rivelate dal nostro illustre parente. Non c’è dato sapere dove i due si conoscano e non sappiamo nemmeno quale sia la molla che porta l’uno a ingaggiare l’altro per sovrintendere ai lavoretti di casa. La leggenda vuole che la sua nomina a capo della servitù dipenda sostanzialmente da due fattori: Antonino è un sacco bellino e ha la passione della cura del corpo (a riprova, in famiglia, circolano un paio di foto dove il nostro eroe ha dei pezzi di cetriolo sul viso).
Nino lavora dai Berlusconi per quasi un decennio e nelle rare cene famigliari ci parla spesso dell’ex presidente del Consiglio. Quel che ne esce è il ritratto di un santo, uno che a bontà se la gioca giusto con San Francesco d’Assisi e con Papa Bergoglio. Visto da vicino il leader di Forza Italia è gentile, premuroso, generoso, allegro e, soprattutto, di sinistra. Rinuncia alla tavola imbandita da ogni ben di Dio, dribbla l’austera e algida Veronica e si mette a mangiare con le maestranze: Nino, appunto, quindi le cuoche, quelle che fanno le pulizie, gli stallieri, ognuno con i suoi piccoli-grandi problemi quotidiani. Silvio glieli risolve all’istante, poi li rallegra con spassose barzellette fino al mattino.
Capitolo donne. E qui lo zio Nino pare una tomba. Ma, col tempo, nel muro di gomma qualcosa trapela, una fessurina che rivela che non è Berlusconi a correre dietro alle ragazze, ma l’esatto opposto: sono loro che impazziscono per lui. E se il Cavaliere cede, non è perché è un tipo lussurioso, al contrario la sua colpa è quella di essere un filantropo anche lì, esattamente a metà tra la pancia e le cosce. Gli spiace rifiutare, è un uomo di mondo, sa che le femmine ci restano male e allora sotto a chi tocca. Dal quadro dipinto ne viene fuori un moderno figlio dei fiori: l’amore libero, ma dentro un certo margine, a causa (o per merito) di un animo grande grande.
Se Nino è la prova, gli indizi che il cuore del Berlusca sia sempre battuto a sinistra si sprecano. Gli amici più cari vengono tutti da lì: i socialisti Belpietro e Feltri; i sessantottini Liguori, Rossella e Mughini; Ferrara e Bondi, da giovani iscritti al Pci; i comici di Zelig (Bisio e gli altri); chi mette in scena Striscia la Notizia; il candidato del Pd a Bergamo, Giorgio Gori. Cosa accomuna persone tanto diverse nelle lunghe cene a Arcore? Detto delle fantastiche barzellette, rimangono l’ideologia e il suo filosofo: Karl Marx. E giù a parlare del Capitale che andrebbe ridistribuito, Silvio a capotavola, gli altri che applaudono, perché, come dice Vasco Rossi, “cambiare partito è molto facile, cambiare idea già un po’ più difficile, cambiare fede è quasi impossibile”.
E poi c’è il Milan che, come sostiene mio papà, è club storicamente di sinistra. Dopo essere stato a un passo dall’acquisire l’Inter, Berlusconi compra la società rossonera e s’insedia in via Turati nella seconda metà degli anni Ottanta. Parte scegliendo due uomini simbolo, uno in panchina, l’altro in campo: Arrigo Sacchi, romagnolo e rivoluzionario del pallone, e Ruud Gullit, trequartista di colore e chitarrista reggae, il genere di Bob Marley, un’icona dell’antifascismo planetario.
Il calcio, i giornali, la tv, la politica, persino la gestione della casa: non è un caso, dove c’è Berlusconi, i marxisti spuntano come funghi. Da qui la speranza dell’outing, un po’ per noi che chiuderemmo un cerchio, molto più per lui. Che soffre perché ha quel segreto lì strozzato in gola, è un ovo sodo, non va né su né giù, gli rende grigi i giorni, uguali e uggiosi, senza il sole (dell’avvenir). Forza Silvio, non ci pensare più, chiama Fede, convoca la direttona televisiva e sputa il rospo rosso che ti perseguita, liberatene, subito, già all’esordio, son poi tre parole: “Viva il comunismo e la libertà”.