Sento la mancanza dello stronzo che mi suona perché mi sono menato via in uno dei miei centocinquanta pensieri del mattino e non mi sono accorto che al semaforo del Palazzetto è scattato il verde. Mi manca il suo dito medio appena mi sorpassa, abbassa il finestrino e mi dice: “Alà bigol, sveglia”.
Vorrei tornare a un mese fa, coi tifosi dell’Atalanta ubriachi e molesti che cantano fuori da casa mia appena finita la partita, tenendoci tutti svegli e con quella voglia addosso di andare giù a dargli due papine ben assestate perché Vinicio e Zeno domani hanno scuola, ma sono esaltati dai cori e non vogliono manco sentire che devono andare a letto.
Sogno una stecca al mio malandato ginocchio destro da parte di Zio Ferdinand, che mi mena un martedì sì e l’altro pure quando lo dribblo per andare in porta. Me lo immagino di fronte, cattivo come sempre, spietato, e prometto che appena torneremo a giocare non mi vendicherò dei suoi calci, ma ogni volta che mi stenderà in mezzo all’area, facendo finta di non avermi fatto niente, mi rialzerò per dargli una carezza sul crapino.
Ho bisogno del delirio in redazione la domenica, quando i dirigenti non ci rispondono e non sappiamo come cazzo fare a recuperare le sfide giocate dal Lemine, dalla Vertovese, dall’Azzano, dallo Zanica e dal Baradello. E lo viviamo come un dramma senza fine, con tentativi telefonici a dir poco maldestri ed estenuanti, che ci portano a svegliare anziani presidenti all’una e mezza di notte. Una sfiga, ma che ora che non c’è, mi pare una cosa bellissimissima, elettrizzante.
Ho nostalgia persino di mia mamma che me la mena perché ho i capelli lunghi, il maglione bucato e la Panda piena di bottiglie di birra vuote. I suoi rimproveri ci sono sempre, non molla e la ringrazio, ma via WhatsApp non mi fanno lo stesso effetto, passano via come se nulla fosse, nella noia.
Non ho un senso di colpa da quindici giorni e faccio una fatica boia senza quei brividini da peccatore, non dico una bugia di quelle belle belle da almeno un mese e ci sto male, mi diventa tutto grigio.
E poi l’assenza della gente intorno, quella che incontro per caso e inizio a tormentare con le mie chiacchiere. Spesso s’incazzano che a Bergamo ognuno ha un sacco da fare, cinque minuti e scappano, lasciandomi quel godimento che mi dà lamentarmi un po’ perché in questo mondo si va troppo di fretta.
Va beh, con chi sta all’ospedale ed è malato, non è che le mie sofferenze da isolamento siano così importanti, ma penso le abbiamo in tanti, che siamo gente che ama far minchiate in compagnia, e scriverne col sorriso a qualcuno magari farà anche bene.
Intanto vado ad abbracciare l’albero qua fuori, spero pieno di resina, per appiccicarmi il giusto, con quel minimo di adrenalina che sento quando faccio una cazzata, la prima di questa epoca di coronavirus. Vi dirò, a dopo.
Matteo Bonfanti