di Marco Bonfanti
“Con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così che abbiamo noi che abbiamo visto Genova…”, cominciare il pezzo citando l’abusata canzone di Paolo Conte non è certo il massimo dell’originalità, eppure lo facciamo perché noi, i quattro pseudo giornalisti dilettanti allo sbaraglio, ad un certo punto, così, lo siamo stati davvero. Ma andiamo con ordine. Allora nel nostro itinerante viaggio nella Serie D, domenica ci siamo permessi una succosa deviazione e siamo saliti, almeno per un giorno, sui sacri altari della massima serie, andando ad assistere a Genoa-Atalanta, non certo il massimo, ma pur sempre in elevata ascesa.
Consci del compito non secondario che ci eravamo scelti, abbiamo deciso, i quattro pellegrini in ogni senso, di partire il giorno prima, cioè sabato, onde essere sul posto con quell’anticipo proprio dei paesani che si recano, quasi in pellegrinaggio, in città. Spaventandoci quel giusto, la città, ci siamo posizionati in periferia, ad Arenzano precisamente, ed ivi abbiamo ben cenato e trascorso la notte, come ben si conviene a chi deve con noncuranza nascondere le pezze al culo, in un albergo a quattro stelle, dal prestigioso, anche se non molto originale nome di Grand Hotel.
Poi domenica, con qualche brivido ben celato, ci siamo decisi a sbarcare nella città portuale, visitandola quel tanto che basta a farci dire che sì, c’eravamo effettivamente stati. Poi, al congruo orario degli ingenui, ci siamo portati nelle vicinanze dello stadio. E vai che ti vai, l’abbiamo visto (lo stadio) da lontano, e c’era meraviglia nel vederlo e lodi nell’ammirare l’ardita, per noi, architettura. Abbiamo così posteggiato la macchina, ritenendoci pure fortunati di poterla lasciare, oh mica siamo a Lecco, a soli seicento-settecento metri dal sacro luogo. E vai, per la cronaca manca ancora un’ora e mezzo all’inizio della partita, a ritirare quegli accrediti, i quali ci vengono rilasciati pianamente, cioè senza essere sottoposti , con nostra meraviglia ad un qualche test di lingua italiana o di savoir faire. Con gli accrediti fra le mani passiamo il primo cancello, ma, superato questo, per entrare allo stadio ci sono una serie di altri ingressi. Dobbiamo trovare quello riservato alla stampa, che, almeno di primo acchito, non appare. Ed è proprio qui che assumiamo quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così perchè giriamo, chiedere non possiamo, pena l’eterna squalifica, curiosando ogni entrata, nella speranza, per un po’ vana, di trovare quella giusta. Che alla fine, fortunatamente, appare. E siamo in una tribuna stampa deserta, i primi ad arrivare, un’ora buona d’anticipo sull’inizio delle ostilità.
La partita inizia quindi un bel po’ poi. Ma noi non ci annoiamo perché ci scattiamo un bel po’ di foto come i giapponesi davanti al Duomo di Milano e ridiamo e scherziamo come una scolaresca in gita, sfuggita agli occhi vigili e severi del professore di turno. Poi, mentre guardo la partita, mi chiedo le differenze fra i nostri periferici soliti campetti e questo gotha del calcio giocato. Le prime sono evidenti, e di ben poca nota, come la differenza del tifo, qui più esteso e quindi più variopinto, rumoroso, vociante e compatto, e la differenza nella qualità del gioco, che è un po’ come passare dal ping-pong al tennis. Una differenza però, meno evidente al momento, mi colpisce di più, il trattamento nei confronti del direttore di gara. Nello spiegarla devo premettere che noi siamo posizionati vicino alla tribuna, laddove, quindi, dovrebbe ritrovarsi il tifo più distinto, meno becero, più signorile. Ora avercela con l’arbitro è cosa palese su qualunque campo, a qualsiasi latitudine. Sui nostri campetti della serie inferiore l’acredine nei confronti del direttore di gara mi pare, e certamente è, meno virulenta e meno coinvolgente la giacchetta nera in sé. E’ un po’ come quando giochi alle carte, io e Beppe facciamo pure parte di un giro che settimanalmente si trova a farsi la scopa d’asse, e che insulti il compagno che sbaglia, e gli dici cretino o coglione, ma quello, salvo in rari casi, non si offende, perché sa che il giudizio non concerne la persona in sé, ma solo la sua capacità a discernere le carte giuste. Ecco la mia impressione è che in Serie D l’arbitro lo si insulti così, dentro il margine di quello che sta facendo in quel preciso momento. Gli insulti visti e sentiti ieri, e ripeto dalla tribuna, mi sono sembrati, per furore e livore, d’altro tipo. Era come se l’arbitro fosse un incapace in generale, in tutta la sua storia, per tutto quello che era e non solo per quello che faceva. E tutto, si badi bene, per dei presunti falli a centro campo o degli altrettanto presunti corner, cioè delle cose della massima insignificanza, perché mica avrebbero cambiato la partita.
Poi che siamo tornati, questo interessante, ma anche inutile impianto filosofico, l’ho lasciato perdere. Mi sono informato del Lecco che ha perso ancora. Domenica a Gozzano perciò non si può perdere e noi, tornati alla consueta dimensione che più ci si addice, eccome se ci saremo.
Nella foto: il nostro quartetto fuori dal Marassi