Trovo il tempo solo ora perché prima il dolore era troppo, sulle guance soprattutto, poi dentro, nello stomaco, lungo tutti i miei nervi, fin giù ai piedi. E le lacrime, tante tantissime, a coprirmi il viso per due giorni interi, come una volta sola da bambino. Non ero più abituato e così in questi giorni mi pareva di essere in un film, il più tragico vissuto da quando sono nato. E morto Savier, il nostro cagnolino, e io, che sono figlio di figli di contadini, credevo l’avrei passata liscia, insomma senza sofferenza. Sabato mattina, appena prima di andarsene nel paradiso dei cani, ho portato il mio Savi lungo il fiume Serio, nel suo luogo preferito, quello dove stava il suo piccolo e gigante cuore. Fermo nell’acqua, guardava le anatre, dolcemente, nella consapevolezza che stava vivendo gli ultimi momenti in questo mondo. In un’ora ha fatto tutte le cose che gli piacevano: il bagno, una corsa lungo il prato, una caccia sfortunata a un uccellino coraggioso, che di lui morente non aveva la minima paura, una dormitina in una pozza puzzolente, una leccatina al mio braccio. Maldestro, inciampando, solo per me, per celebrarmi in un’ultima splendida, commovente e tragica volta.
Io non so se ci sia un Dio, spesso me lo immagino cattivo e noioso, uguale uguale a quello sentito sulla pelle negli interminabili pomeriggi passati a dottrina, ma oggi vorrei che il Signore fosse diverso, buono, ad accarezzare sul crapino il mio Savier, che io adoravo e che mi manca da morire. L’ho già detto, sono di specie dura, di quelli che i cani sono solo delle bestie, ma col passare delle ore mi accorgo che forse non è così. Savi è nato e cresciuto nell’amore per me, per Costanza, per Vinicio e Zeno, che hanno pianto venerdì, tutta notte, quando ci siamo accorti che non ne aveva più e cercava un angolino per andarsene nel suo modo meraviglioso, accogliente, sempre senza disturbare.
I cani, Savier più di tutto, sono irresistibili, eterni bambini di quattro anni, dolci, dipendenti, affettuosi, e io prima di lui un cagnolino non l’avevo avuto mai. Quando Vinicio e Zeno l’hanno portato a casa da un rifugio di una montagna lecchese, lo sentivo solo come una scocciatura, il giro della sera, la pipì alle otto di mattina, e che palle tutti questi impegni per uno zingaro come me, ogni mia calza mangiata, le fila di mutande col buco in mezzo. Poi, piano piano, gli attimi col mio cane sono diventati un piacere, unico, assoluto, l’interminabile allegria quando cammini accanto a chi ti ama senza se e senza ma, con pretese minime, due coccoline sul divano, l’acqua, le crocchette, un po’ di prosciuttino se sei di quelli come me, che di notte ti sale addosso la sbrana.
Non so perché continuo a farmi del male con queste parole zeppe di ricordi di gite in montagna, forse perché scrivere è da sempre il mio Lexotan e, arrivato all’ultima riga, magari mi passeranno finalmente queste sciocche e miserabili lacrime, le stesse di due persone a cui voglio immensamente bene, che, mesi fa, quando hanno perso il loro Savier sono state tanto male e a me parevano sceme perché non era un nonno o una zia o un cugino caro. Ora so cosa hanno provato, la stessa cosa che sento qui e ora, l’immensa voglia di tornare a casa e trovarci quel cagnetto bianco e marrone, scodinzolante, che tenta di leccarmi tutto, per partire come due matti sulla ciclabile, insieme, felici, nell’amore unico che c’è quando si vive per l’altro senza farne diventare il senso del possesso che dà il sesso. Ringrazio il mio Savier, meraviglioso bastardino che mi ha insegnato il volere bene del Piccolo Principe con la sua rosa. Prima di lui, io, che ho quarantadue anni, non ci ero ancora arrivato.
Matteo Bonfanti