di Matteo Bonfanti

Cancellieri, Santanchè e mamme delle baby squillo a parte, credo che per risolvere una buona parte dei problemi del nostro Paese basterebbe che ci fermassimo un attimo a guardare il cielo, affidandoci all’altra metà, quella delle madri. Ne incontro tante in questi giorni. Una più di tutte le altre: sta qui con me e ha sempre addosso i miei bambini. In braccio, in spalla, sulla pancia, sulle gambe. A volte persino sui piedi, rannicchiati, uno sull’altro, eternamente in lotta per averne il pezzetto più grande, tali e quali ai vampiri col sangue. Ho due maschi e se la contendono ogni minuto. E lei distribuisce loro amore, equamente, come un giudice celeste portato qui da una nuvola bianca e soffice di un pianeta lontano e perfetto. Gli insegna un mondo migliore, dove non c’è un preferito, ma due individui con gli stessi diritti: lo stesso spazio nel suo immenso cuore.
Vinicio fa la scuola calcio. E l’allenamento è un tappeto verde di tentativi. Il mister gli spiega il passaggio, il dribbling, lo stop di petto, il tiro al volo. Non c’è partita. Neppure alla fine. Così in tribuna di papà se ne vedono pochissimi. Ci sono io che canto “Ciao mare” di Casadei (che ho in testa da più di un mese) mentre rincorro Zeno, il mio secondogenito che non è ancora nell’età del pallone. E poi ci sono altri babbi, giusto un paio, ma cambiano, non sono sempre gli stessi e comunque stanno al telefonino, a mandare messaggi, senza interagire con l’ambiente esterno. Chiudono la carrellata due nonni fedelissimi che contano poco perché non si muovono, non parlano e non fanno cenno, forse perché quando sei in pensione fai qualunque cosa pur di tirare le otto di sera, ma la fai quasi sempre in silenzio, di soppiatto, sentendoti un privilegiato che prende lo stipendio senza lavorare.
Trenta bambini, sei uomini adulti. Finché non ci sarà contesa, il rapporto sarà questo. Poi arriverà il campionato e si materializzeranno i padri, tutti. La maggiorparte  sarà lì a incazzarsi con l’arbitro o a insultare l’allenatore perché fa giocare anche le pippe o a ingaggiare duelli verbali su un presunto fuorigioco con i genitori avversari.
A quel punto io sulle gradinate non ci sarò più. Sarò defilato, distante, là nei pressi della bandierina del corner, dove comincia la recinzione, con addosso il passamontagna a coprirmi il viso, stando attento a non disturbare il mio Vinicio che è piccolo e quindi fragile, da maneggiare con estrema cura. Accadrà, ma tra un sacco di tempo, quattro anni, quando il mio bimbo passerà tra i pulcini. Ora ho tempo di godermi le mamme. L’incredibile dolcezza dei loro sguardi verso il campo: sono complici e caldi nonostante il freddo boia di queste sere. E riescono a scaldare i rispettivi figli anche a grande distanza, più o meno cinquanta metri.
Mia madre per molti aspetti è eccezionale. E’ buona e generosa, somiglia al sole. Non frequenta la tristezza e non l’ha fatto mai. Da lei le mie parti migliori: l’allegria all’improvviso, la felicità in sottofondo, anche quando fuori piove, anche dentro la tempesta, nell’idea che ne valga sempre la pena, nell’ostinata convinzione che tornerà il sereno. C’è sempre stata e c’è tanto ancora adesso che sono un uomo fatto e finito e penso, spesso sbagliandomi, di averne bisogno un poco di meno. Ma mi ha cresciuto in un modo particolare: proteggendomi da lontano, affidandomi a mia sorella, alla strada, al cortile, ai boy scout, all’oratorio, al pallone, poi alle varie fidanzate della mia veloce adolescenza, quindi al lavoro.
Vedendo la casellina vuota, ho trovato spesso un sacco di mamme pronte a prendermi sotto le loro ali per insegnarmi a volare o, quantomeno, ad abbozzarne un ipotetico volo. Ne ho avute a Lecco, Daniela, che adesso sta al Corriere, appena mi sono messo in testa di scrivere. Continuo ad averne a Bergamo. E tra queste c’è la Giuliana che ha l’articolo perché è un personaggio famoso che ha estimatori persino in Cina. Siamo una decina, si va da lei ogni martedì sera, dopo gli allenamenti. Arriviamo tardi, lei si siede al nostro tavolo e ci ascolta, sorridendo. E ogni tanto le scappa una battuta, ma senza sarcasmo. Accattivante eppure lieve, comprensiva persino quando facciamo la fila per pagare. Arriva il mio turno e mi manda via. Mi vede stanco e scompigliato, le viene da proteggermi anche così: offrendomi la cena.
Sono d’accordo con Sveva Casati Modignani che il problema dell’Italia (e dell’intera Europa meridionale) sia morale. La maggioranza delle persone non rispetta le regole che ci siamo dati all’inizio della Repubblica. Succede in Parlamento, nei consigli regionali e negli stadi, accade tra gli imprenditori, tra i commercianti, tra i giornalisti, tra i dipendenti statali. Avviene in nazioni che sono a guida maschile.
Mentirei se dicessi che la perduta legalità sia un problema solo degli uomini. E a smentirmi ci sarebbe anche l’ultimo caso di cronaca locale, i bonifici della ragioniera del Comune di Stezzano. Ma è diversa la motivazione che spinge all’illecito. Quando un uomo ruba, lo fa per spirito di conquista, se lo fa una donna è per conservare qualcosa, a tutela di qualcuno, in aiuto ai propri figli o ai propri genitori o a un parente in disgrazia. Non è una giustificazione, ma una differenza. Come è diverso il rapporto tra maschi e femmine quando si parla di reati. Su cento, novantacinque sono commessi dal sesso forte, solo cinque da quello debole.
E poi c’è la speranza. Ce l’ha ogni madre, le entra dentro piano piano, le aumenta col crescere della pancia. Perché ne serve tantissima per far nascere un bambino in questa Italia disgraziata e piena zeppa di cattivi.  Il nostro Paese ha bisogno di ripartire da lì, dalla fiducia che hanno le mamme di oggi. Mettendoci intorno il resto: la sensibilità propria delle donne e la loro progettualità necessaria per mandare avanti la specie. Fossi conosciuto, Crozza mi prenderebbe assai per il culo, perché mi pare di essere Matteo Renzi.
Quindi chiedo perdono, tolgo i panni del mentalista e chiudo con due esempi. Un altro calcio è possibile solo se allo stadio ci vanno le famiglie: le madri, i loro bambini. I precedenti sono a pochi chilometri: in Inghilterra e in Germania, due nazioni che in quanto a violenza stavano messe peggio di noi. Una politica senza scandali si può immaginare con un presidente del consiglio in gonnella. A Berlino c’è Angela Merkel e gli operai prendono quattro volte più dei nostri, gli onorevoli l’esatta metà.

(nella foto Giuliana D’Ambrosio)