di Matteo Bonfanti

Più o meno alle dieci di sera, mentre stavo concludendo una serie infinita di esercizi per imparare bene bene la differenza tra nomi collettivi (flotta, sciame, gregge), indipendenti (marito/moglie, pensiamoci), comuni (giornalista e omicida, e anche qui la riflessione è d’obbligo) e promiscui (la tigre e il serpente: beati), mi domandavo tra me e me, insomma senza dirlo a nessuno, se fossi il solo quarantenne impegnato anima e corpo nei complicatissimi compiti di prima media del proprio figlio. Ho chiesto a un paio di amici cari, coetanei, coi figli leggermente più piccoli dei miei, e pure loro erano sulle sudate carte. Rispettivamente stavano ripetendo da mesi la terza e la quinta elementare. Nel panico.
Con uno di loro concordavamo, giusto lavorare noi, che i nostri bambini hanno un sacco di meglio da fare: scoprire il mondo passando ore e ore ad ascoltare i deliri dei famosi youtuber, imparare a memoria le peggio canzoni in circolazione, Rovazzi, Jax e Fedez, andare al parco a menarsi coi soci, a pallanuoto a rischiare l’affogamento collettivo, a chitarra a distruggere brani che hanno fatto la storia della musica, e, soprattutto, le giovani generazioni devono occupare almeno un terzo del loro pomeriggio a scoprire i segreti della Play Station 4, per poi diventare dei campioni di Super Mario, che è davvero fighissimissimo.   
Mentre facevo i compiti d’italiano, le domande nella mia testolina erano tante, le stesse delle sere in cui faccio per il mio Vinicio matematica, tecnica o inglese: chissenefotte di queste regole? Una volta che le so, scrivo meglio? Divento magari più intelligente e/o più colto e/o più bellino? Mi capiterà mai di parlarne a qualcuno, magari a un aperitivo in centro con gli amici (“sai che storia… l’altro giorno ho incontrato nel libro di Saviano un nome primitivo e mi sono venuti i brividini”)? Ora che ho scoperto che “gru” è invariabile e “pittrice” è mobile, vincerò dei soldi al Gratta e Vinci? Mi sbatto come un matto, lo Stato mi premierà in qualche modo mandandomi via posta una manciata di gettoni d’oro dei giochi a quiz della Rai?
Il sesto esercizio di pagina 106 mi diceva che dovevo inventare delle frasi infilandoci delle parole chiave. E io le scrivevo sul quaderno di Vinicio, riproducendo la sua calligrafia sghemba e i suoi pensieri semplici, da undicenne, un’anima fresca fresca, non ancora inquinata dall’esistenza. Intanto guardavo la seconda puntata della serie tv sui Kennedy. Qualche volta fare le due cose insieme mi faceva entrare nella totale confusione, con frasi, assurde, costruite direttamente dal mio zoppicante inconscio. Rileggendo l’ultima (“il cronista sportivo è un assassino perché ammazza il fuco e per le api è un dramma, quindi mandiamolo in galera il prima possibile e salviamo l’ecosistema e Madre Natura a cui dobbiamo essere grati per gli uccellini che cantano nei prati insieme a San Francesco, un gran bel tipo, un umbro che però forse tiene alla Fiorentina, la Viola che ha perso Bernardeschi e che in panchina ha Pioli che non è questo grande mister”), ho spento la televisione, si sa mai che il mio lavoro portasse a Vinicio una nota sul famigerato registro elettronico. Alle undici ho messo a letto i miei ragazzi, Vini e Zeno, leggendogli quattro capitoli del nostro libro famigliare, Storie della buona notte per bambine ribelli, e alla terza vicenda, quella sul magico tennis delle sorelle Williams,  i due dormivano che era un piacere della vista e del cuore. Mi sono aperto una birra e sono andato a fumare sul terrazzo. E lì ho avuto la solita illuminazione complottista di mezzanotte. Ve la dico: il governo, che è cattivo, obbliga i professori a dare un sacco di lavoro a casa perché sanno che a farli saremo noi quarantenni. Ci tengono impegnati ogni sera così non pensiamo, non usciamo, non ci organizziamo in bande armate e non diamo vita a quella rivoluzione che distruggerebbe il potere. Pensateci. Nel frattempo buoni compiti. Io stasera ho francese. Je t’aime.