di Matteo Bonfanti
Dice Trueba, scrittore che consiglio, che ci si rende conto di essere invecchiati quando in Serie A non c’è più nessuno della tua generazione. Occhio e croce a me ne restano due, Buffon, che però non vale perché è un portiere, e Totti, alle sue ultime due partite. Come tutti i mediani del mondo, ho amato Francesco con quel pizzico d’invidia legato ai suoi piedi divini. E da ragazzo mi mettevo lì, tentavo e ritentavo la sua botta al limite dell’area e il pallone usciva sempre fuori di almeno un paio di metri. E’ andata così, dio mi ha dato la tecnica di un fabbro, non c’è da lamentarsi, ma solo da prenderne atto. Non tengo alla Roma come invece cinque miei amici carissimi e fighissimi, Nico Maraja, Fabrizio Rota, Fabio Spaterna, Ivan Crescenzi e Maurizio Barba, sul tifo sono una banderuola, anni di Milan, poi Berlusconi premier e quindi il tradimento ai colori rossoneri per motivi politici, a seguire l’amore per l’Inter di Moratti, per il Bologna, l’Udinese, la Lazio, la Ternana, l’Atalanta e, ora, una forte simpatia per il meraviglioso calcio della Juve di Allegri e della coppia formata da Higuain e Dybala, due meraviglie.
Non c’entro coi giallorossi eppure vedere Francesco trattato da Spalletti manco fosse il peggiore giocatore del mondo mi mette addosso un po’ di tristezza e mi fa riflettere sulla Serie A, che è la spietata rappresentazione di quello che viviamo in Italia, ossia che si va dall’altare alla polvere in un giro di giostra. Chi gioca, lo sa: in Champions o in Terza categoria stare in panchina è una cosa che dà sentimenti terribili. Si sta lì, seduti, con la faccia tirata, incazzati a chiodo, intanto perché si ritiene di essere molto meglio di quello che fa il tuo stesso ruolo ed è stato scelto dal mister per partire dall’inizio. C’è il rancore, c’è l’invidia, c’è la speranza che la propria squadra vada di merda, subito sotto di tre gol, risultato che obbliga quello scemo dell’allenatore a cambiare in corso, regalandoti l’ingresso magari già negli ultimi minuti della prima frazione. Non credo a quelli che stanno fuori col sorriso, fingono. Immagino quindi lo stato d’animo di Francesco domenica nei novanta più recupero di Roma-Juve, lui, un campione, quello corteggiato per dieci anni dal Real Madrid, sempre dal Milan, la bandiera, il simbolo di un club. La cronaca del big match dice che Dzeko è assente e che la Roma sta pareggiando per caso contro le riserve della Vecchia Signora. Spalletti che fa? Non prende neanche in considerazione l’ipotesi di mettere il capitano e lo umilia regalandogli i sessanta secondi finali, quasi fosse un pagliaccio, un ex giocatore. Se Totti avesse potuto, penso che avrebbe accoppato il suo tecnico, che si sta comportando uguale uguale al mostro delle favole, quello che arriva per uccidere il nostro eroe.
Francesco ha quarant’anni, ma siamo davvero sicuri che sia l’età per smettere? A venti si corre a perdifiato, ma si sbagliano centinaia di passaggi, con l’esperienza si perde in quantità, ma si aumenta in qualità, i dieci palloni che si toccano fanno la differenza, cambiano il naturale corso della gara. Non fosse arrivato Spalletti, Totti avrebbe dato l’addio tra un quinquennio anche perché al centravanti basta un’occasione buona per fare il proprio mestiere.
Pensieri, ovviamente opinabili. Di certo c’è che nel massimo campionato italiano non esiste mai un lieto fine. Maldini fu addirittura fischiato e anche lì la vicenda mi aveva fatto restare male. C’è riconoscenza, a volte, ma solo tra i Dilettanti, dove va ricordata la grande festa che sta organizzando la Tritium per Giorgio Pesenti, 42 anni, altro fenomeno del calcio quando il pallone è classe e tecnica sopraffina.