Il 15 giugno ’83 avevo appena finito la prima elementare. Il mio battesimo al calcio era arrivato appena un anno prima, i mitici (o famigerati, come avrei scoperto poi con le inchieste che Oliviero Beha negli anni ha dedicato alle non proprio limpidissime trame che ci permisero di vincerli) Mondiali di Spagna del 1982: quelli che li ricordo ancora, con Gentile che strappa la maglia a Maradona, Altobelli allampanato e stralunato come dopo un’indigestione di paella valenciana che segna il terzo gol nella finale con la Germania Ovest, Pertini (“Un presidente, c’è solo un presidente”) che gioca a scopa con Zoff e Bearzot sull’aereo e io in giro per la Brianza in macchina con mio padre con un’enorme bandiera italiana. Insomma quella roba lì, quella che ti fa innamorare di un gioco che poi ti porterai dietro tutta la vita, perché ci giochi all’oratorio con gli amici, magari  poi in qualche squadra di paese, oppure semplicemente perché lo continui a seguire, ché il calcio è qualcosa di molto più interessante e profondo di ciò che un epiteto di Caressa o una pedanteria di Marianella possano raccontare, mica c’è bisogno di scomodare poeti come Umberto Saba o sudamericani come Osvaldo Soriano, per saperlo. E insomma, il 15 giugno di quell’anno, forse per festeggiare la promozione a scuola, forse per vedere di nascosto l’effetto che fa, mio padre, juventino, porta me (interista in potenza, per influenza dello zio e di due nonni che in gioventù avevano sfiorato la militanza, da portiere e terzino, nell’Ambrosiana, ma che il padre plagia subdolamente portandolo dalla parte gobba – Me ne dissocerò negli anni sfumando progressivamente verso un agnosticismo critico che poi incontrerà una netta svolta antibianconera con le vicende del 2006 e un susseguente grande tifo per quel genio di Mourinho e la sua Inter del Triplete, completando poi la svolta con il ritorno a casa: l’abbraccio definitivo alla causa bauscia per una questione ben più nobile, e cioè l’amore per la mia ragazza) in quel di San Siro, alle sei della sera, per assistere a una partitona: proprio Inter-Juventus. Si parla di Coppa Italia, un affare di cui in quegli anni io ignoro totalmente l’esistenza. Gara di ritorno, dopo che all’andata la Juve ha vinto 2-1. Per me il perché e il percome della partita contano in fondo poco o nulla. La bellezza sta nell’andare in questa cosa misteriosa che si chiama stadio (San Siro è ancora lontana dal terzo anello, è del tutto scoperto e i nostri posti sono nella Nord, la Curva interista, esattamente dietro la porta, per cui immaginatevi quanto potessi vedere io della partita), e assistere al primo match dal vivo della mia vita, scoprendo così, peraltro, che Nando Martellini e Bruno Pizzul in realtà non fanno la telecronaca anche per i tifosi allo stadio. Nel 1983 per me di significativo ci sono più che altro un pugno di canzoni, che nell’immaginario di un bambino di sette anni sono una specie di trampolino di lancio per le fantasticherie dei giochi: Enola Gay degli O.M.D., Vamos a la playa dei Righeira, Polvere di Ruggeri, Tainted Love dei Soft Cell. E poi il Subbuteo che mi ha regalato mio cugino, le storie speciali che a Natale pubblicava Topolino, lo stare attenti a non accettare caramelle dagli sconosciuti fuori dalla scuola. Non chiedetemi di dirvi qualcosa di viscerale sul calcio, sulle partite o cose del genere. Classifiche, risultati e tutto il resto erano meri concetti astratti da cui ero ancora tenuto alla larga. Però una cosa che ancora oggi mi piace, già allora, in nuce, ce l’avevo. Mi rimanevano impressi i calciatori che in qualche modo ti davano e ti danno l’idea di avere una personalità, un carattere. E infatti io di quella partita mi ricordo giusto il risultato, uno squallido 0-0 (Gianni Brera diceva che lo zero a zero è il risultato perfetto, per una partita di calcio, e lungi da me criticare Giuanbrerafucarlo, ma, almeno in quel caso, la perfezione non coincise con il divertimento) di una noia epocale. Però ricordo altre cose: i tifosi, le urla e i canti, i colori, i bandieroni (niente di sofisticato come quello che si vede oggi, tutto molto più naif: bandieroni malcuciti, cuscinetti per sedersi sugli spalti che poi vedevi sulla cappelliera dell’Alfasud del vicino di casa, magliette autoprodotte) e poi loro, i giocatori. Un giovanissimo ma già smargiasso e gigione Walter Zenga, un giovanissimo ma già vecchio e cattolico “Zio” Bergomi, un elegante quanto fumoso Hansi Muller e lo sguardo triste da bomber solitario e fumato (e inceppato, quel giorno) di “Spillo”. E dall’altra parte, invece? Beh, un polacco baffuto che mi ricordava tantissimo mio papà e di cui mi faceva ridere il soprannome da caramella gommosa, Zibì, e un signore dal culo basso, i calzettoni abbassati e la maglia fuori dai pantaloncini, con lo sguardo scazzato da “ma io devo davvero giocare con voi?”, che in realtà avrebbe dovuto militare nella squadra nerazzurra, ma che (anche questo lo avrei scoperto anni dopo) uno dei consueti magheggi per cui sono tristemente famosi gli juventini aveva deviato da Milano verso Torino. Sì, sto parlando di Platini. Dev’essere per quell’aria sempre strafottente e snob, da perenne presa per i fondelli, che mi stanno simpatici Serge Gainsbourg, Vincent Cassel e il pastis (mi raccomando, non sbagliate: il pastis va bevuto in un bicchiere stretto e lungo, quelli da amaro, una parte di liquore e cinque di acqua, rigorosamente. A meno che non siate Gainsbourg, e in tal caso fate esattamente la partizione opposta), e in generale i francesi. Insomma, la mia prima volta allo stadio è un’idea, più che un ricordo. Qualcosa di vago e di astratto, cui ripensarci anni dopo, come ora, che allo stadio ci vado ben poco, sicuramente meno di quel che vorrei, e che di campioni carismatici e non solo marionette ce n’è quasi nessuno (sì, Zanetti è una bandiera, mi direte, ed è vero, ma parliamoci chiaro: Zenga era tutta un’altra cosa, così come Materazzi. Io parlo di gente con la pellaccia). Diciamolo, io la mia prima volta allo stadio, per davvero, non è che me la ricordi bene. E’ per questo che me la sono raccontata.
Manuel Lieta