Più di tutti mi ha colpito Alessandro Dell’Orto, ogni sua parola. Ma anche Roberto Pelucchi e Luca Bassi mi hanno fatto rimanere a bocca aperta, ininterrottamente, per quasi due ore. Ognuno mi ha lasciato in eredità riflessioni profonde sul mio mestiere, quello del giornalista sportivo, l’argomento centrale della mattinata di mercoledì quando abbiamo aperto la nostra redazione ai lettori, regalandoci un giorno speciale, a lezione da tre colleghi in gamba, bravissimi e molto diversi tra loro.
Roberto Pelucchi della Gazzetta dello Sport è un cronista in via d’estinzione. Interpreta il nostro mestiere come lo facevano i colleghi di cinquant’anni fa: scavando a mani nude tra le miserie del pallone. Che, nei suoi articoli, diventa la perfetta rappresentazione di questa Italia di fine corso, dove a vincere sono sempre i furbi, spesso la peggio gente in circolazione. Pelucchi dà da pensare, mi fa riflettere almeno una volta la settimana perché mi divide l’anima. Da una parte amo l’idea che il giornalismo sia una missione e che il nostro fine sia quello di raccontare la verità, anche quando è brutta e miserrima e ti mette tutti gli ultrà del pianeta contro. Dall’altra ho un carattere che non mi fa mai prendere troppo sul serio e che, proprio per questo, mi fa preferire i temi frivoli, su tutti il calciomercato, alle inchieste. Che, comunque, restano la mia lettura preferita. E poi c’è anche quello che ci chiedono i nostri lettori, che sono tifosi, quindi persone strane, particolari. A riprova i dati del nostro giornale: se lo Scanzo vince, le edicole del paese vanno esaurite; se pareggia, si vende, ma pochino; se perde, nessuno compra una copia. Se uno tiene a una squadra, fa così: ti legge solo quando le notizie sono buone, se sono cattive le evita. Se c’è la cronaca di un ko, o, peggio, se si parla di uno scandalo che investe i dirigenti, il tifoso fa la scimmietta giapponese che non vede, non sente e non parla. Per l’appassionato di pallone tutto deve andare bene, l’azione deve essere meravigliosa, il presidente generoso, onesto e appassionato, l’attaccante morigerato, senza vizi, a letto presto la sera e da solo. Il calcio deve restare un angolo di felicità e noi, che lo raccontiamo, ci adeguiamo. Serve, insomma, la favola. Ne ha bisogno il dirigente del Ponteranica, come il ragazzo che va in Curva Nord la domenica al Comunale di Bergamo, la desidera la famiglia di fede juventina che ieri non ha preso la Gazzetta. Che, comunque, ha coperto di lodi la prova della formazione di Allegri nonostante abbia perso. E nel pallone uscire sconfitti da una finale è la tragedia più grossa che possa succedere. Noi non raccontiamo balle, ma, spesso, addolciamo la realtà, evitando accuratamente quel che sappiamo, ma che non possiamo dire perché potremmo rompere il giocattolo che ci tiene in vita. Pelucchi è diverso. E’ scomodo. E’ un giornalista raro. Averlo in redazione è stato un onore.
Diversissimo l’intervento di Luca Bassi, ora a Bergamonews, ma che ho visto diventare grande professionalmente prima al Giornale di Bergamo, poi da noi, al Bergamo & Sport. Adesso un’ulteriore crescita. Qui Luca si occupava della nostra edizione cartacea, ricamando i suoi articoli, senza fretta, lavorandoci anche per ore perché voleva fossero perfetti dalla prima all’ultima riga. Passando sul web ha dovuto imparare un altro lavoro. Perché la rete è velocità. Bisogna battere la concorrenza sul tempo. La notizia va verificata e subito pubblicata. Tralasciando la forma, che deve essere semplicissima, immediata. Nella lezione che ha tenuto ci sono sia la fine di un’epoca, quella del mio giornalismo lento e arzigogolato, perfetto per il giornale in edicola, ormai ai suoi minimi storici, che l’inizio dell’era successiva, quella dell’informazione solo su internet. Che porta con sé tante domande ancora senza risposta: c’è ancora spazio per l’approfondimento nel mare magnum di notizie di cui ci inonda la rete? C’è posto per la qualità oppure è solo una gara tra siti a chi linka per primo la news del giorno? Forse la risposta è nelle pagelle dell’Atalanta fatte proprio da Luca, le più lette nella nostra provincia perché hanno la profondità e il dettaglio proprie della carta, ma sono pubblicate sul web, immediatamente, cinque minuti dopo il triplice fischio del direttore di gara.
A chiudere la mattinata di lezione Alessandro Dell’Orto, cronista di Libero, insegnante all’università di Pavia, attualmente uno dei giornalisti più famosi in Italia anche perché spesso ospite dei programmi di approfondimento della Rai. Ho conosciuto Alessandro vent’anni fa, per uno strano destino tutti e due alla Gazzetta di Lecco, lui in fuga da una grande esperienza lavorativa a Bergamo, io all’inizio della mia carriera, impegnato a seguire più che altro terribili e deserti consigli comunali in sperduti paesini di montagna. Da lui, che era il mio caposervizio, ho preso soprattutto la straordinaria curiosità, non il metodo per realizzare le sue meravigliose interviste, lavori che l’hanno reso grande tra i grandi, alcune raccolte in Soggetti Smarriti, un libro da leggere. Innanzitutto il tempo, Alessandro dedica al suo articolo un’intera giornata: il pomeriggio a fare domande e ad ascoltare la persona in questione, la sera a scrivere. Poi c’è quanto si documenta, Dell’Orto arriva dall’intervistato strapreparato e questo gli permette di andare ancora più a fondo, scavando su un argomento magari già trattato da qualcun altro, ma che lui impreziosisce di particolari che fanno la differenza. Quindi la simpatia che Alessandro ha, innata, e credo lo aiuti parecchio perché le persone di fronte a lui si sciolgono. Ed è anche normale, anch’io se devo confessarmi scelgo i miei amici che sorridono, che mi tirano la battuta e che ridimensionano i miei problemi. Non i musoni. Nell’intervento di Ale tanti piccoli trucchetti per farsi aprire il cuore, quello ad esempio di chiedere di associare un’esperienza vissuta a un colore o a un profumo. E da lì indagare. Oppure quello di scrivere piegando la propria prosa al modo di parlare di chi si è raccontato. Di tanti consigli che ci ha regalato, da tenere sempre in testa credo ci sia l’idea che sta dietro al lavoro di Alessandro, l’immenso impegno che ci mette, la cura del dettaglio, l’assidua ricerca della verità nel fare un mestiere, il nostro, che lui reputa il più importante di tutti, più delle occupazioni del presidente della Repubblica e del campione che gioca la finale di Champions League.
Viene da dire che se tutti fossimo come Roberto, Luca e Alessandro, l’editoria non sarebbe in crisi. Andrebbe a gonfie vele. Purtroppo non è così perché il problema è assai più complesso e non riguarda solo le qualità umane e professionali di chi scrive. Di certo c’è che è bellissimo che ci siano ancora in Italia tre giornalisti tanto bravi e così appassionati.
Nella foto in alto: Luca Bassi e Roberto Pelucchi
Nella foto sopra: Giacomo Mayer ed Alessandro Dell’Orto