di Matteo Bonfanti
D’improvviso, per caso e senza prepararmi psicologicamente, mia moglie ha cominciato a fare due lavori, scomparendo per gran parte della giornata. E io sono diventato mammo, che è il ruolo più sfortunato della famiglia moderna. Si smette di essere il papà, ossia l’uomo leggendario che arriva un quarto d’ora al giorno portando regali e dispensando sorrisi. Ma non ci si trasforma, automaticamente, nella mamma. Un po’ perché la casella è occupata, insomma i miei figli una madre già ce l’hanno e l’adorano pure, molto per via di una questione di cellule. Che sono nato maschio, che è barba e baffi che crescono, capelli che cadono, e assoluta incapacità a crescere i propri bambini.
All’inizio averli ogni pomeriggio è stato uno shock. Va detto non per colpa loro, che però sono due ometti, uno di nove, l’altro di sette anni, assai diversi. Su tutto: il primo, Vinicio, è un convinto vegetariano, ombroso, affascinante e incazzoso; il secondo, Zeno, è un allegro carnivoro, solare, semplice, un po’ permaloso e con la fissa dei soldi; uno vive nella matematica e nel computer; l’altro negli abbracci, nelle parole e, sempre, nelle vicinanze del suo salvadanaio. Gusti opposti, non c’è un meglio o un peggio. Il problema è che sono due anime totalmente inconciliabili. L’inizio del casino è la merenda. Il dilemma è tra la brioche vuota in testa a quello che punta a mangiare sano rispettando gli animali, e il macellaio col prosciutto in vetrina sognato dal cucciolo di uomo delle caverne che vive con noi. A questo punto un lettore onesto si chiederà perché non si possono accontentare entrambi: prima si va a prendere il panino col crudo, poi si fa una corsa al bar sotto casa. Non si può. Perché il grosso problema del mammo è il tempo. Sono un uomo e di casalinghi non ce ne sono ancora, non li hanno istituiti, quindi mi tocca fare un lavoro. Nel mio personale caso sono il direttore di un giornale, tra l’altro grosso, il secondo a Bergamo. E alle quattro e mezza, quando i miei figli escono affamati come lupi da scuola, sono nel pieno del lavoro. Ho ventisei minuti per ritirarli dalle elementari, fargli mangiare qualcosa e portarli a casa a scegliere un paio di giochi per la nostra drammatica serata in redazione.
Il problema maggiore sono i Lego. Dico quello stronzo che li ha inventati così piccoli sbattendosene dei genitori che ne sarebbero rimasti coinvolti. Capita che passi ore a cercare la testa di Luke Skywalker tra milioni di mattoncini mentre uno dei due piange perché vuole giocare a Guerre Stellari e il capo della Resistenza deve esserci, è fondamentale perché è pure un guerriero jedi. La crapina non si trova. E io guardo l’orologio. E il tempo corre. E mi chiedo che vita è. E non mi do risposta. Allora tiro un urlo a caso, peggiorando la già problematica situazione.
Ed è qui che mi rendo conto che noi uomini non siamo adatti alla crescita dei figli. Ci manca la tenerezza necessaria a rimpicciolire le quotidiane difficoltà che s’incontrano, facendole d’un tratto scomparire, come per magia. Alle mamme basta un bacio e i figli si scordano di quello che volevano. Tornano a sorridere. Se invece il mammo li sbaciucchia, si puliscono schifati. Corrono in bagno e si lavano la faccia. Li capisco: io e mia sorella facevamo la gara a chi stava più attaccato alla bocca di mio babbo che fumava e beveva come me e aveva l’alito corrosivo. Era una prova di forza. Mettevamo in palio dei soldi, poca roba, mille lire a botta. Con mia madre questo gioco non c’è mai venuto in mente. Anzi, le eravamo sempre appiccicati nel lettone.
La soluzione del mammo è il denaro. Mangi questo? Domani ti do un euro. Venite con me alla partita? Sono quattro euro che vi mettete subito in tasca. Ci facciamo portare la pizza in redazione che sono indietrissimo? Domenica vi consegnerò cinque euro. Andiamo al Mc Donald’s? Son due euro. Partecipiamo al laboratorio in Città Alta? Eccovi otto euro da spendere nell’edicola più vicina. Vi lascio al parco con la mamma di Emma? Avrete nove euro a cranio già stasera. Oggi Zeno, il più piccolo, sosteneva che avessi accumulato un debito con lui pari a 174 euro. Gli ho spiegato di avere pazienza: glieli darò, ma a rate, dieci euro a settimana per i prossimi quattro mesi. Ha accettato, ha fatto due calcoli, mi ha detto che mi scontava quattro euro. Tenero. Purché non decida di gettare il suo mega stipendio in uno scatolone Lego con cinquanta testoline piccine picciò. Nel caso potrei optare per il gesto estremo: un pellegrinaggio a Medjugorje.
NELLA FOTO DI ELENA BENICCHIO – Zeno e Vinicio sabato pomeriggio a un divertente laboratorio in Città Alta