di Cristiano Forte

“Mia madre non aveva poi sbagliato a dir che un laureato conta più di un cantante” una strofa de “L’Avvelenata” di Guccini che esprime poeticamente il sogno di intere generazioni di genitori: il “pezzo di carta” per i figli. Il titolo di studio era visto come lo strumento per affrancare i figli dalla condizione di lavoro duro e malpagato nella fabbrica o nei campi che vivevano i genitori, l’ascensore sociale, come si dice oggi, che avrebbe permesso a chi proveniva dalle classi meno agiate di salire nella scala sociale. La realtà, oggi, è tristemente diversa.
Nello scorso anno scolastico, tra medie e superiori, l’abbandono scolastico ha riguardato il 2,9% dei figli di laureati, la percentuale sale al 7,8% tra i figli di diplomati e ha riguardato quasi un ragazzo su tre (27,7%) tra i figli di genitori che hanno frequentato solo la scuola dell’obbligo. Tra i paesi OCSE (che comprende 34 paesi sviluppati con sistema di governo democratico) solo la Turchia conta meno laureati dell’Italia in rapporto alla popolazione. L’Italia ha la metà dei laureati rispetto alla media OCSE e, quel che è peggio, solo il 27% degli iscritti all’università proviene da famiglie con un basso livello di scolarizzazione, pur rappresentando, queste famiglie, i 2/3 dell’intera popolazione italiana.
Possiamo quindi affermare con una buona approssimazione statistica che in Italia un bambino che nasce oggi da genitori operai non accederà ad una formazione scolastica superiore, mentre il figlio di laureati molto probabilmente si laureerà a sua volta.
Facciamo queste riflessione alla luce della riforma della scuola presentata dal Governo e delle risposte dei Sindacati. L’inevitabile sintesi della comunicazione politica fa sì che Renzi riassuma la riforma con lo slogan: “Assumeremo 100.000 precari”. Di contro, i Sindacati rispondono che “I precari sono 266.000 mila, il piano previsto dal Governo è insufficiente”. C’è anche altro, ovvio, ma il tema principale affrontato dai due fronti riguarda la stabilizzazione degli insegnanti precari. Ma il problema della scuola non sono i precari, che pure sono un problema, perché non si può pretendere che una scuola svolga decentemente il suo compito con una enorme quantità di insegnanti che non godono di tutele, perché solo da un insegnante tutelato puoi pretendere preparazione, aggiornamento e capacità adeguate. Il nocciolo della questione è però un altro: la scuola è fatta anche DAGLI insegnanti, ma soprattutto è fatta PER gli studenti. Se la discussione di una riforma della scuola si riduce alla valutazione della sua efficacia nel fungere da ufficio di collocamento per gli insegnanti non ci siamo, perché si ribalta il problema e si parla di qualcosa di diverso, ugualmente importante, intendiamoci, ma diverso rispetto agli obiettivi principali a cui dovrebbe mirare una riforma della scuola: permettere l’accesso a tutti i gradi d’istruzione a chiunque abbia la volontà e le capacità per farlo, fornire una preparazione adeguata, fungere da volano per l’economia preparando persone capaci di inserirsi nel mondo del lavoro con mansioni superiori. Il contrario di quello che succede oggi, perché siamo tra gli ultimi per numero di laureati e diplomati, perché siamo tra gli ultimi per grado di efficienza della scuola, perché i gradi d’istruzione superiore sono riservati a pochi indipendentemente dal merito e perché non solo aumenta il numero dei laureati disoccupati, ma è sempre maggiore la percentuale dei titolari di un titolo di studio che svolge una mansione di livello inferiore rispetto a quella per la quale la scuola li avrebbe dovuti preparare.
Logica conseguenza di questa situazione è l’errata convinzione che il titolo di studio non serve a niente, o comunque serve a poco. In realtà quello che non funziona non è il titolo di studio in sé, ma la scuola italiana e la sua capacità formativa; lo dimostrano due dati spietati: 1) In Italia i laureati sono la metà rispetto alla media degli altri paesi sviluppati 2) In Italia i laureati disoccupati sono il triplo della media. Un assurdo, apparentemente, perché i pochi laureati dovrebbero essere contesi dal mercato del lavoro, non rimanere disoccupati, ma questo è il risultato di una scuola inadeguata, che non premia il merito, impermeabile a larghi strati della società e che non fornisce una preparazione adeguata. Partendo da qui si potrebbe trovare una soluzione anche al problema del precariato. Non il contrario.