di Matteo Bonfanti

E’ un po’ che ci penso, da sabato sera ne sono certo. Non c’è arte. Sono lì, al Teatro Sociale nella noia più totale mentre quattro uomini, per carità anche carini, vestiti bene, ragazzi a posto, forse gay che è cosa gradevole, in forma, sicuramente sani, non drogati, di quelli bravi, che vanno a correre di sera, tirano in cielo delle clave. Vanno avanti un’ora e non è che fanno come Marcel, il mio ex cognato colombiano che se è di buzzo buono fa girare anche sette o otto palline contemporaneamente sopra un monociclo morsicando una mela e facendo l’occhiolino a sua figlia Miranda. Questi qua non sono giocolieri, ma artisti. Quindi non fanno numeri d’alta scuola che ti lasciano a bocca aperta. Si esibiscono in esercizietti che posso fare pure io con un paio di giorni d’allenamento da Nicola che ha fatto “Italia’s got talent” e che d’estate fa la scuola di circo ai miei bambini. Insomma non sono sotto il tendone del circo Orfei, ma in Città Alta. Non sto vedendo dei funamboli, ma degli attori. Che vanno a rilento, lanciano una clava alla volta, così per venti minuti, poi due e parte un’altra mezzora, quindi tre e alla fine quattro, ma sono troppe: fanno fatica e gli cadono. E guardano fisso, con una certa arroganza, il numeroso pubblico. Che è estasiato. Io penso ai partigiani perché è la sera del 25 aprile. Che avrebbero detto se si fossero trovati a uno spettacolo del genere? Avrebbero fucilato la compagnia? O se ne sarebbero stati lì buoni buoni come me che non capisco il senso e faccio i miei soliti viaggi, un po’ calcistici, un po’ pornografici, un po’ a caso, da normale maschio italiano?
Fottuto dal titolo, “Untitled, I will be there when you die”, che significa “Senza titolo, io sarò lì quando tu morirai”. L’ho letto sul nostro giornale in un articolo di Giacomo Mayer che è un giornalista onesto, e mi sono detto: imperdibile, con quel che fumo, con quel che bevo, col fatto che dormo poco e mangio sempre alle due di notte, non facciamocelo scappare. Che se uno sceglie di dare un nome del genere a uno spettacolo, sicuramente avrà un sacco di cose da dire. Chissà che pensieri profondi sulla vita e sulla muerte, che figata, insomma andiamo a vedere Alessandro Sciarroni. Che pare un re, anzi un dio greco. Lo dice il pieghevole: l’attore in questione non è una persona normale, è un performer, parola che solo a pronunciarla giusta mi mette un sacco di brividini al collo.
Una clava. Due. Tre. Quattro. Senza fine. Musica inquietante messa da un dj che muove le gambe sotto la console. Io immerso, completamente, in altri pensieri: l’Atalanta con l’Empoli, la Forza & Costanza con la Zanconti, il Cenate Sotto con la Real Calcinatese. Avanti veloce, senza un senso preciso, in ordine sparso tra i miei viaggi cerebrali: l’anziana donna in prima fila, se fa o non fa l’amore con suo marito, come, dico in quale posizione, se si è ingrigita anche là, insomma lì sotto, e che effetto fa a chi di sera la guarda ignuda. Poi, da un rimando all’altro: la tela sfregiata da Fontana, la musica italiana, le canzoni per tagliarsi le vene che ci continuano a propinare perché fanno intellettuale, quanto costa far passare il proprio pezzo alla radio, l’investimento annuale che fanno i produttori di Cesare Cremonini e di Ligabue, Malika Ayane che è timida, ma s’impegna assai e si fa aiutare persino da un paio di artisti di strada, forse rumeni, i rutti al microfono dell’ultimo Vasco Rossi, indecente, ma che quelli di Rtl 102.5 mi hanno fatto ascoltare tante di quelle volte che ormai piace anche a me, i Jalisse, Mietta e Minghi, Federico Buffa che m’intrippa e con la sua voce sarebbe piacevole persino dicesse “viva la merda” cento volte di fila, i gol di Ferenc Puskas, l’annata no di German Denis che è nervoso, la tranquillità di quell’inquieto che era John Lennon, L’Eco di Bergamo che è cattolico, Dino Nikpalj che è affascinante, Fabio Spaterna che coi capelli lunghi e biondi pare ancora un ragazzino, Kurt Cobain che si è suicidato e ci hanno fatto un film che non sono ancora andato a vedere, l’amante di Pablo Neruda, Fernando Pessoa e il suo baule pieno di gente, Diego Armando Maradona che fa il lifting, l’immensa poesia di Mirco Mariani, sconosciuto autore di una decina di canzoni dalla bellezza incredibile, quella cosa orrida che sono i direttori artistici, gli addetti alla cultura e i Dear Jack.
Mi stanco anche dei miei pensieri. E col telefonino vado su internet, cerco Alessandro Sciarroni, m’imbatto sul suo sito, graficamente bellissimo. Leggo cosa sto vedendo per cinque euro che non sono tanti, ma neppure pochi. Cerco di capire il senso che hanno due clave lanciate in aria da quattro uomini che indossano scarpe da ginnastica alla moda: “UNTITLED_I will be there when you die, è una pratica performativa e coreografica sul passare del tempo che nasce da una riflessione sull’arte di manipolare con destrezza gli oggetti: la giocoleria. Questo lavoro rappresenta il secondo capitolo di un progetto più ampio intitolato Will you still love me tomorrow?, la ricerca che Alessandro Sciarroni intende realizzare sui concetti di sforzo, costanza e resistenza (Folk-s, 2012 – UNTITLED, 2013 – S.P.O.R.T 2014). In questo nuovo lavoro il toss juggling evoca la fragilità dell’esistenza umana. L’idea è spogliare quest’arte circense dagli stereotipi cui viene comunemente associata nell’immaginario collettivo ed esplorarla in quanto linguaggio. Pratica, regola, disciplina, impegno, concentrazione, sono gli elementi costitutivi di questo lavoro che costringe gli interpreti a stare nel tempo presente, senza possibilità di tornare indietro, ancora e ancora e ancora”.  Chi ha scritto questa cosa è un genio e il toss juggling domani lo dico in redazione, alla cazzo, mentre sono fuori a fumare e parlo del governo. Inquieto un po’ chi mi sta intorno che magari pensa sia una nuova tassa che ci arriva tra capo e collo.
E torno a pensare, stavolta qualcosa di preciso, rifletto che siamo in un’epoca strana. Più del copione, più della scenografia, più della musica, più delle parole, più dei quadri, più delle sculture, più delle emozioni, più del cuore, servono tanti soldi per avere un ottimo addetto stampa che ha un sacco di agganci tra chi conta in Comune e che conosce migliaia di parole colte e vetuste, qualcuna in inglese che fa fashion. E’ lui il vero artista.
Ne conoscessi uno in gamba e avessi qualche euro sul mio conto corrente gli proporrei di presentare nel suo modo lo show che ho in testa. Sto lì, fermo e concentrato, due ore a raddrizzare un casco di banane Chiquita col culo e a fare righe a un centinaio di chicchi di caffè con un coltellino svizzero, di quelli rossi e multiuso, che si trovano anche dai cinesi. M’immagino l’email del mio ufficio stampa all’assessore alla cultura: “Nel prezioso lavoro di searching bonfantiano c’è il docile insegnamento dei nostri avi unito al non speculare e sofferente background mai tipicamente anglofono, più tipico dei profughi afgani che dal confine si spostarono nell’Iran. C’è il class teaching post moderno che fa del tempo presente il passato ellittico che è spesso nostalgico. Ellenico e tragicomico di sovente e ancora e ancora e ancora”. E via con gli applausi estasiati del pubblico quando mi s’incastra una banana nell’ano e chiamo il 118 per disincagliarla. Siamo a questo. Il teatro contemporaneo è incomprensibile. Così la pittura e la musica, così la poesia. E se non si capisce una mazza, tutto può essere arte. Pagando, s’intende.