di Matteo Bonfanti
Nel mio costante tentativo di diventare un uomo migliore oggi mi sono messo in testa che avrei speso la mia giornata a fare poco o niente, vivendola senza pretese, evitando di farmi prendere dall’ansia del qui e ora. L’idea era mio papà, la domenica che io, lui e mia sorella Chiara passavamo felici trent’anni fa. Così ho fatto il padre cadavere fino alle undici e mezza nonostante Vinicio e Zeno, i miei figli, arrivassero a turno a tentare di tirarmi su dal letto. Poi, sempre al rallentatore, ho bevuto il caffè, gustandone il sapore, immaginandomi come il padrone della piantagione brasiliana, dove c’è un sacco di gente pagata anche bene per fare le righe a ogni chicco che cresce sulle piante. Quindi, in pigiama e ciabatte, sono sceso in strada, sono andato in edicola ed ho comperato Repubblica.
Mi sono fumato una sigaretta e mi sono messo a leggere. C’era un bellissimo approfondimento sulla marijuana che in America è legalizzata in due stati e tra poco diventerà un business da miliardi di dollari per l’industria del tabacco. E darà lavoro a migliaia di giovani. Penso sarà un’occupazione assai divertente. M’immaginavo il dialogo in treno: “E tu? Di cosa ti occupi?”, “Ma, niente di che… Rollo canne per la Marlboro. Qualche volta devo preparare i bonghi per la Camel. Li distribuiamo ai rave di San Francisco. E lì è una faticaccia perché mi tocca il turno di notte. Ma prendo bene, non mi posso lamentare. E poi ridiamo parecchio. Il vero problema è la fame che ci viene all’una e trentacinque circa”.
Fantasticavo e, di fondo, c’era la riflessione che il giornale è magico mentre internet non lo è. I bambini mi vedevano sul divano, impegnato a leggere e a sfogliare le pagine, e non osavano manco avvicinarsi. Rispettosi, quasi fossi alle prese con la traduzione di un testo sacro o di una profezia di Nostradamus in grado di dirci esattamente quando arriverà il megameteorite a mettere fine all’esistenza sulla Terra. Il quotidiano è una cosa talmente stramba che ai miei figli mette paura. Mi fossi attaccato al computer, non avrei letto nulla. Vinicio, 8 anni, mi avrebbe imposto la visione del mondo 7 di Mario Bros, Zeno, 6 anni, l’ascolto a oltranza della colonna sonora di Frozen che c’è in tutte le lingue, persino in giapponese.
E visto che i Bonfini mi ignoravano e mia moglie stava vendendo un vecchio orologio su ebay, andavo avanti bel tranquillo. Berlusconi e le olgettine, argomento piccante e quindi divertente, ma che a Silvio dà dei grattacapi, Bergoglio che mi piace perché è un tenero, ma sto giro è irrequieto perché vuole organizzare un altro Giubileo, Alonso che non corre perché ha perso la memoria, De Rossi che non gioca perché è in depressione nonostante sia il calciatore più pagato in Serie A. In tutti c’era che i soldi non danno la felicità, anzi ti tirano addosso una fila di problemi. E mi sono sentito rinfrancato che nella mia vita non c’è il rischio di diventare ricco. E posso restare sereno.
Alle due eravamo a tavola. E mia moglie se l’è presa con Vinicio e Zeno che non volevano sedersi con noi perché erano impegnati nella loro camera, nudi come due vermetti, sotto una tenda, a fare gli indiani. Un paio di urlacci e li ha convinti. Ed io pensavo a mia mamma che si è messa a fare da mangiare solo da nonna. Prima sono state più che altro focacce con olive verdi già snocciolate che non so perché ma restano il mio pasto preferito. Da consumare al volo, in ufficio, tra un post di facebook e un articolo di Bergamonews.
Alle tre in punto ero a pagina 54, immerso nella dolce esistenza del regista Kenneth Branagh. E il mio sabato nell’ozio si stava già trasformando in quello del vizio. Otto sigarette già fumate nella lettura del giornale, tre birrette messe repentinamente nel frigorifero che mi chiamava con la sua vocina stridula e furbetta: “Vieni, tesoro, sono ghiacciate. Apri la Ceres che ti ama. Lei è lì per te, pronta a sacrificarsi…”.
E mi sono detto: svolto, chiudo Repubblica e vado in redazione. Che se mi metto a lavorare, la pianto di leggere, di pensare e di ricordare. E smetto di sudare.