di Manuel Lieta
«La Cisanese? Un colpo di fulmine dopo il primo colloquio con Franco Forliano: mi hanno convinto la grande organizzazione dell’ambiente, le tante persone coinvolte, volontari compresi: un’impostazione da società di livello superiore, difficile da trovare anche in categorie più alte. Può sembrare una ruffianata, ma è proprio così».
Parola di Gabriele Donghi, attaccante classe 1979 sbarcato quest’anno alla corte di mister Maffioletti dopo una luminosa carriera tra Como, Pro Sesto, Solbiatese, a cavallo tra serie D e C1. Dribbling, velocità e tendenza ad accentrarsi partendo dall’esterno per liberare il tiro, da destra o da sinistra (un po’ alla Robben, per capirci) le frecce all’arco di Donghi, che, oltre che calciatore di grande qualità è soprattutto persona molto intelligente con cui parlare, partendo, ovviamente, dal pallone di cuoio. «La scelta di Cisano è stata, all’inizio, abbastanza casuale: l’anno scorso ero in serie D, alla Pro Sesto, e stavo cercando di capire cosa fare da grande, come conciliare l’impegno del calcio (mi allenavo al pomeriggio) con lavoro e vita privata: cosa non sempre facile, come avevo già potuto sperimentare dopo aver terminato gli studi. E’ stata una scelta davvero azzeccata».
La Cisanese ti ha portato anche una celebrità da vip: hai incontrato un nostro lettore che ti ha nella sua squadra del Fantabalù. Come è andata? «E’ stato molto divertente: questo ragazzo, Cristian, mi ha contattato su Facebook e mi ha chiesto di venire al campo per fare una foto con me, perché una serie di mie buone prestazioni lo aveva reso vincitore di giornata al gioco del vostro giornale. Ci siamo visti dopo un allenamento, e ogni tanto ci si sente ancora».
Hai militato in categorie che sfiorano il calcio che conta. E’ veramente così evidente il gap, ad esempio, con la Promozione? «Conosco la Promozione da quest’anno, ma quello che ti posso dire è, e non lo dico solo perché sono un “vecchietto”, che il livello, qualche anno fa, era un po’ più alto. E’ un qualcosa che ha a che vedere da un lato con il livello dei singoli (ti trovi a giocare con ragazzi che arrivano da settori giovanili professionistici) e poi con la situazione professionale, in termini di organizzazione. Tra i Dilettanti, il mister ha a che fare con ragazzi che si allenano due volte la settimana, ma poi hanno un lavoro, o l’università, il mister può pretendere fino a un certo punto. In serie D, invece, hai il diritto di pretendere il massimo da ragazzi che si dedicano al 100% al calcio. Settore giovanile e dedizione, qui stanno le chiavi».
E tu arrivi da un settore giovanile, quello del Como, storicamente forte. «Sono stato uno degli ultimi a giocare nel Como di Preziosi, in anni in cui i giovani erano già un po’ trascurati, ma ho avuto la fortuna di incrociare gente che poi è andata nel calcio che conta, a partire da Zambrotta, che mi è capitato di sostituire due volte con la Primavera, a Tommaso Rocchi, a Milanetto».
Ci pensi mai che potevi essere in A con loro? Hai avuto una sliding door che poteva farti svoltare? «Guarda, in tutta onestà, ho avuto grandi momenti, come quando, con la Primavera, sono stato capocannoniere d’Italia, così come molti infortuni, a 16 e 20 anni. Ma al netto di sfortuna e caso, se vuoi arrivare e hai la determinazione per farlo, arrivi. Quando avevo 20 anni, io ragionavo da ventenne. Quelli che ce l’hanno fatta, a vent’anni ragionavano da trentenni, come carisma e personalità. Il calciatore vero è quello che gioca in realtà dove affronta la pressione dei tifosi, dei media, delle partite importanti, in anni in cui i suoi coetanei escono e si divertono: è un investimento su se stessi che, da fuori, si considera sempre poco. Io sono arrivato un po’ in ritardo: è questione di testa, poi devi avere piedi buoni e fortuna, chiaro, ma senza la testa non si arriva. Detto questo, comunque, non ho nessun rimpianto, e rifarei centomila volte il percorso che ho fatto e che faccio, anche se spesso mi dicono che avrei potuto calcare palcoscenici più importanti e così via».
Testa, piedi buoni e buona sorte: magari giochi nei Pulcini dell’Inter, poi le vicissitudini ti portano a scendere di categoria mentre cresci… «Oppure a sfondare: gli ’84-’85 del Como, ad esempio, sfruttando appunto le vicende giudiziarie di Preziosi, hanno potuto esordire tutti ad alti livelli, e tra loro c’è ad esempio gente come Parolo».
Chi è stato il calciatore più forte che hai incontrato? «Non solo per come la vedo io, è il parere di gente come Prandelli o Filippo Galli: è Vincenzo Maiolo, talento assoluto della Pro Sesto classe ’78. Giovanili nel Milan, poi si infortuna e arriva a Sesto, passa al Livorno, ma è una testa calda, litiga e torna a Sesto, dove gioca diversi anni. Altri infortuni, e ora è in Prima categoria, pesa quasi 100 chili e tira solo le punizioni. Ma è classe pura: pensa che due anni fa, per il centenario della Pro Sesto, prima squadra e vecchie glorie famose, come Stefano Eranio, si sono alzate per una standing ovation quando è arrivato. Ho giocato anche con Giovannino Stroppa (ex Milan, Lazio e Piacenza, ndr), ma Maiolo vinceva davvero le partite da solo».
Una bella impronta nel calcio, per te, ma anche gli studi e un lavoro interessante: Donghi fuori dal campo. «Mi sono laureato in Filosofia alla Statale, a Milano, con una tesi sulla leggerezza in Nietzsche e Leopardi, e poi ho preso un master in Sport e Marketing alla Bicocca: interessi e passioni che ho tutt’ora e che coltivo e ritrovo nel mio lavoro alla Sportland, un’azienda di Milano che organizza eventi sportivi legati a pacchetti turistici».
Lavori a Milano, ti alleni a Cisano, vivi nel Lecchese: ci vuole davvero passione… «Una bella vasca, e non lo nego: allenarsi a volte è dura, il campo è pesante, fa freddo, tre volte a settimana sei fuori alla sera. Poi però arriva la domenica e tutto cambia, torni bambino e fai ciò che ti piace fare. Ci penso spesso, e mi dico che in fondo, fin da ragazzo, questa è stata la mia vita, perciò continuo, finché ce la faccio e mi piace giocare, anche se non sono esattamente un ragazzino».
E gli affetti? «La mia compagna c’è, mi segue, ogni tanto viene anche a vedermi, ma sta defilata».
Torniamo al calcio. Le dichiarazioni di Sacchi e di Tavecchio, fanno domandare se certi personaggi non dovrebbero essere più consapevoli di ciò che dicono, nel loro ruolo. Che ne pensi? «Parto da una considerazione generale. Un comportamento, purtroppo, molto italiano, è quello di additare qualcuno, quando si sollevano determinati argomenti, come capro espiatorio per vomitargli addosso colpe e accuse, scaricando in questo modo se stessi da qualche responsabilità: a volte tutto sta nell’intelligenza di chi dice certe cose ma anche di chi le riporta, e magari decontestualizza; un atteggiamento spiacevole che in un certo senso si è verificato anche in questi casi. Però, detto questo, io sono intransigente nel sostenere che i concetti di autorità e autorevolezza si acquistino per merito: se qualcuno si comporta in maniera non adeguata al ruolo che ricopre è perché non è adeguato e va quindi “combattuto”. L’uscita di Sacchi è da imputare a una grave ignoranza dell’argomento di cui parlava, perché le parole che ha detto sono, oltre che ingiustificate, sbagliate, a meno di non conoscere la realtà di cui si parla e dire la propria tanto per. Che poi ci si possa domandare quale senso abbia, proprio a livello economico, per una grande squadra investire su un giovane per poi dirottarlo in serie minori e farlo sparire, oppure se si prendano giocatori extracomunitari solo perché costano meno e possono essere trattati peggio degli italiani, questo è tutto un altro discorso. Non vedo una via d’uscita molto percorribile».
Il merito e l’autorevolezza: note dolenti che vediamo anche in altri ambiti, la società, la politica. Qual è il tuo pensiero in merito? «Quando ero più giovane ero molto coinvolto. Ho una formazione di sinistra, mi posso definire vicino a un socialismo laico. Crescendo, e grazie ai miei studi, ho maturato la convinzione che oramai, più che le idee, la differenza vera la faccia la capacità delle persone di esercitare lo spirito critico, il dubbio, di non rimanere schiavi dei propri dogmi. Io imporrei, se potessi, proprio l’approccio filosofico del dubbio, attraverso il confronto, l’ascolto. Come nella religione: io sono agnostico, ma provo a capire le ragioni di chi vive la propria esistenza avendo come sistema una religione. Mi rendo conto, come dice Nietzsche, che il perseguimento della felicità, alla fin fine, è ciò che ci guida e determina, non i dogmi di per se stessi. Per questo oggi sono più disincantato e demoralizzato, politicamente: mi spiace parecchio, mi rendo conto che è sbagliato. Vedo questa mancanza di dubbio, che poi noti anche nel modo in cui la gente si esprime su Facebook. Io tempo fa volevo chiuderlo, il mio profilo, perché ti fa porre domande, se veramente la democrazia sia una cosa bellissima o solo il minore dei mali possibili: l’allargamento della base democratica ha portato a un drammatico abbassamento della qualità delle opinioni e del pensiero di ognuno di noi. So che questo è qualcosa che può sembrare più di Destra che di Sinistra, ma io credo che ognuno dovrebbe pensare a quale sia il suo grado di approfondimento, dei problemi, prima di esprimersi solo perché, apparentemente, può farlo. Ti faccio l’esempio della musica: io non ne so molto, mi piacciono Vinicio Capossela, i cantautori, ma non ho gli strumenti per parlartene, la ascolto a livello di emozioni, di pancia, non mi permetterei di entrare in un discorso complesso. E invece molti non hanno, sui temi più disparati, questa stessa consapevolezza. Ed è un problema».
E qui con Lele concordiamo, e ci salutiamo, non prima di esserci ripromessi una cena per continuare la chiacchierata.