Il Loreto visto da dentro lo spogliatoio, quattordicesima puntata

Saper giocare “a testa alta” è una di quelle doti che contraddistinguono un grande giocatore da un giocatore normale. Senza andare troppo nel raffinato e lasciando perdere quei 3-4 al mondo che hanno gli “occhi anche dietro” e riescono a vedere spazi e imbucate che gli altri nemmeno osano immaginarsi, quel portamento a testa alta consente al giocatore di avere una visione di gioco molto ampia e, di conseguenza, di fare la giocata giusta e anche più difficile. Pochi sanno giocare così davvero, pochi possono godere di questa qualità che oltre ad avere un risvolto pratico positivo influisce anche sull’eleganza di portamento, da “10” insomma. I più, con la palla al piede, abbassano il crapone e avanzano perdendo dunque un po’ di smalto e di lucidità. Qualcuno, ogni tanto, prova ad alzare la testa in modo efficace ma spesso finisce che dimentichi il pallone perché, tra le cose più difficili dell’avanzare a testa alta, c’è il non poter tenere sotto controllo visivo il pallone che deve essere guidato solo ed esclusivamente dalla sensibilità dei piedi. Abbassare la testa è un atteggiamento che si assume durante il gioco soprattutto quando la stanchezza comincia a farsi strada, ad annebbiare la mente, a riempire di acido lattico le gambe, a offuscare la vista. Uno stato d’animo che induce a tenere la testa bassa, penzolante, perché tenerla su e sfruttare la visione periferica diventa anche questa un’azione molto faticosa. E se lo sguardo è basso sul pallone e sul campo qualche segreto per vedere comunque i compagni, per capire i loro movimenti ma soprattutto per sapere a chi si sta passando il pallone esiste. E questo stratagemma può essere – almeno così capita a me praticamente da sempre – individuare il compagno piazzato meglio riconoscendolo dalle scarpe. Come detto, essendo lo sguardo basso, non è che si possa vedere molto di più del campo, del pallone e delle scarpe appunto. E così ogni anno passo in rassegna, oltre che per una passione e per una valutazione estetica, le scarpe di tutti i miei compagni di modo che durante l’azione possa riconoscerli. I portieri solitamente hanno le scarpe più “serie” e meno colorate: “Diego” e “Andre” indossano Adidas, ultimo modello il primo, Copa Mundial classiche il secondo. Un discorso simile vale per i difensori anche se, da noi, c’è un “Nico” eclettico che sfodera tutte le stagioni l’intera collezione Nike e Adidas, spesso anche personalizzate. Tacchetti di gomma rotondi, di gomma lamellari, di gomma per il sintetico, di ferro, misti, per la partita e per l’allenamento ne ha per tutti i gusti. “Marghe” e “Capitan Michi” invece sono tra i meno appariscenti optando spesso per Diadora, nera, con qualche lampo di colore. Dal centrocampo in su invece se ne vedono delle belle perché più un giocatore gode di fantasia più può permettersi di azzardare una scarpa appariscente. “Tia” ad esempio indossa Nike Mercurial fucsia con il baffo sulla punta giallo, “Penna” e “Bosche” hanno rischiato (centrando la scelta) una Puma viola con segno giallo mentre per il “Momo” esiste solo Nike, meglio se scura, come per il “Lale” che invece sceglie il ‘baffo’ ma su sfondo bianco. “Fioro” ormai è un affezionato della Copa Mundial, stessa marca delle scarpette scelte dal “Cino” anche se preferisce colori più accesi. Davanti c’è un “Beppe” da Mercurial (che sembrano disegnate per lui), “Dona” alza il numero di Copa Mundial indossate da noi, “Ale” ha scelto una delle scarpe esteticamente migliori dell’anno (Nike Magista nere, con baffo nero contornato di bianco). Da domenica però dopo una partita in cui la testa su proprio non riuscivo a tenerla visto il dispendio di energie e il caldo, ho avuto in mente solo un paio di scarpe. Le Adidas blu del “Terra” che agganciano il pallone sul fondo (a dire il vero la palla era fuori ma l’arbitro non ha visto) e mandano il pallone a me al centro con la difesa ferma immobile in attesa del fischio dell’arbitro. Ho fissa l’immagine delle scarpe (che ritorna giorno e notte), poi un vuoto di due secondi, quindi l’immagine del pallone che sbatte sulla rete di recinzione ben lontano dallo specchio della porta. Era il 90’, poteva essere il gol vittoria dopo una grande rimonta, e invece l’errore mi ha costretto a fissare le mie scarpe rossoblu perché la testa si era abbassata ancora di più, ma questa volta per la delusione.
Federico Biffignandi