di Marco Bonfanti

«La nostra prima volta è stata tragica, me lo ricordo bene era domenica…»: canta Marras, un cantautore sardo minore. Anche se non era domenica, ma un giorno infrasettimanale, definire “tragica” la mia prima volta allo stadio va vicino vicino al reale. Però per inquadrare questa prima volta (in termini scolastici: dare contesto al testo), occorre fare almeno due premesse che spero vi piacerà leggere.
La prima è che entrambi i miei genitori, quando io ero un bambino nell’età delle elementari, lavoravano. Mia madre aveva un negozio di alimentari che stava pure aperto tutto l’anno. C’era quindi il problema di dove piazzarmi nei lunghi momenti d’ozio estivi. Luglio e agosto io e mio fratello si andava in colonia, quindi eravamo a posto così. Restava la decade finale di giugno ed io venivo spedito a Saronno da una mia zia, che aveva un marito facoltoso, che era un agente della Finanza, adibito a fare controlli in grandi ditte e quindi suppongo, maliziosamente, facoltoso per quello. La seconda premessa è che nella vita io ho sempre dormito piuttosto presto alla sera, beninteso se non avevo particolari impegni, preferendo poi alzarmi alla mattutina aurora. Da quando la mia solerte moglie ha tassativamente dichiarato che lei non sopporta chi dorme davanti al televisore, al sentire le palpebre che scendono inesorabilmente, io tiro su e vado a letto. Per un buon periodo della mia vita ho però vissuto solo e ho fatto delle gran belle ronfate davanti allo schermo televisivo. Prediligendo il cinema, ho dormito tanto di fronte a film di qualsivoglia genere. Con una particolarità però: se mi addormentavo dopo dieci minuti dall’inizio, altrettanto puntualmente mi svegliavo dieci minuti prima della fine. Anche se mi è sempre rimasto come un mistero in che modo il mio cervello mandasse al sonno l’impulso che il film stava per finire, alle scene finali ero lì bello vispo. Bene, fatte queste due centrali premesse, veniamo ai fatti finalmente.
Avevo dieci, undici anni e stavo sul finire di giugno a casa del mio zio facoltoso. Egli, per il suo status e per il suo ruolo, era pure consigliere dell’Inter. Allora una sera che c’era un’amichevole a San Siro e che era Inter- River Plate, lo zio decise di portarci pure me, facendomi così un incommensurabile regalo. E così tiriamo su e andiamo a San Siro, che era bello e grande e ospitale e pure comodo, che noi si stava in tribuna. Nell’Inter giocava la meglio gioventù d’allora, da Facchetti a Picchi, da Suarez a Jair e così via ed era quindi anche un gran bel vedere. Bene, io nella mia comoda poltroncina, passati sì e no cinque-dieci minuti dall’inizio, mi sono addormentato. Poi per la legge di tutta una vita, mi sono svegliato che stava finendo il primo tempo, di nuovo ho dormito all’inizio del secondo e quasi verso la fine avevo gli occhi ben aperti e spalancati sul mondo, in modo che lo zio impegnato a guardare, manco si è accorto che avevo dormito pressoché tutto il tempo, tanto che, alla fine, neanche sapevo il risultato. Eppure, ciò nonostante, quella fu una serata molto importante per l’intera mia vita perché con essa e per essa maturai tre fondamentali convincimenti. Il primo fu che non avrei mai tenuto all’Inter, che nonostante i miei naturali difetti onirici, giudicai una squadra assai soporifera. Il secondo fu che però San Siro era bello e accogliente e valeva la pena tornarci, cosa che poi ho fatto innumerevoli volte, stando però sull’altra sponda, cioè quella milanista, squadra che reputai più briosa e svegliante. Il terzo attiene al ritorno a casa. Ormai ero sveglio, mannaggia a me. Mio zio parlava e parlava della partita (finita seppi poi uno a zero per gli argentini) e io, che non avevo visto quasi nulla, lo assecondai per tutto il viaggio. Imparai allora, e divenne una regola di un’intera vita, che se parli con qualcuno e non hai voglia di ascoltarlo, oppure non sai nulla dell’argomento trattato, basta che dici una serie di rassicuranti locuzioni che vanno dal semplice «sì» ai più complessi «in effetti», «proprio così», «veramente», «lo penso anch’io», «giusta analisi», «conclusione perfetta», e sei a posto tu e pure l’interlocutore. Poi, come mi hanno insegnato i preti in collegio, se scrivi un tema, poi, ci vuole pure la conclusione a allora la mia conclusione è questa: pure da una dormita si possono imparare tante cose.