di Matteo Bonfanti

Si può raccontare la guerra a due bambini, uno di sei e l’altro di otto anni? Ieri l’ho fatto, stanotte non hanno dormito e io mi chiedo se sia giusto o sbagliato avergli detto che nel mondo c’è in giro della gente che si spara per un pezzetto di terra. “Ma papà, gli israeliani non possono tornare a casa loro?”, mi chiedeva Zeno, il mio secondogenito. “I palestinesi, che sono pochi, non possono prendere l’aereo, scendere a Orio e venire a vivere qui da noi? Babbo, dico nel Borgo oppure dalla nonna, a Valgreghentino che c’è tanto posto e il nonno Erni che è buonissimo”, lo incalzava Vinicio, il più grande di due fratelli che tra loro sono sempre in direzione ostinata e contraria, uno da una parte della barricata, l’altro dall’altra anche quando il tema sono due popoli lontani lontani, mai visti in tv e manco sull’ipad. “Non lo so, proveremo a chiederglielo”, rispondevo a tutti e due. “C’è che dovete promettermi una cosa, che quando sarete grandi non userete mai le armi. Nemmeno le pistole d’acqua”. E, incredibile, mi sono sembrati d’accordo.
Poi hanno voluto sapere di me. Perché ce l’avevo così tanto con la guerra da proibirgli persino i soldatini (chissà mai a cosa possa portare un gioco del genere…). E, per una volta, mi sono armato. Ovviamente non di un fucile, ma di tutta la sensibilità che, di solito, nascondo. Ed ho aperto piano piano il mio cassetto dei ricordi, stando parecchio attento all’argenteria che avevo davanti: due creature da così poco sul nostro pianeta e quindi fragili, da tenere al riparo dall’odio, da maneggiare con immensa cura. Non gli ho detto tutto quel che ho visto nella mia estate in Krajina, nel 1997, non gli ho spiegato che chi ha più bombe nel suo arsenale prima rade al suolo le città, poi passa casa per casa ad ammazzare a bastonate ogni mamma e qualsiasi bambino. Gli ho solo descritto una scena che ho sempre in testa, ogni volta che leggo i nostri fenomenali giornalisti parlare di conflitto giusto e sacrosanto: un interminabile campo dove, quando c’era Tito, si andava a ballare e a giocare a pallone tutti insieme, cattolici, ortodossi e musulmani, col sottofondo della musica che più amo, quella balcanica che in quei posti là è parecchio “facciamo giusto un po’ di baraonda, capiti quel che capiti, assai a caso, zeppi d’amore malinconico e di rakija (incredibile superalcolico tra l’altro bevuto a tavola, ndr)”.
Quel terreno, quando l’ho visto io, era coltivato a mine anti uomo. Ed aveva fatto perdere un mucchio di gambe a tanti bimbini identici ai miei, Vinicio e Zeno. Che sono nell’età del pallone. Uno simpatizza fortemente per la Juventus, l’altro è già tifoso dell’Atalanta. Un decennio e a tavola parleremo solo di arbitri. A ora, per fortuna, la Serie A è più che altro un pallone di cuoio dell’Esselunga sempre appresso, spesso tra le mie mani. Gli ho spiegato che la guerra è sbagliata perché quando c’è sparisce persino il calcio. Li ho visti convinti che quel che succede a Gaza è un’idiozia. Non so se ho fatto bene, ma spero di non essere l’unico.