di Giacomo Mayer
Perché , in Italia ma anche nel mondo, non nascono più i numeri dieci? Attualmente, in giro, se ne vedono pochi mentre fino a qualche decennio fa tutte le nazionali ne avevano almeno uno in squadra. Il “gene del genio” è scomparso perché il gioco del calcio si è inaridito oppure perché non ci sono più le mamme di una volta? Forse che oggi i numeri dieci, i fuoriclasse, vengono costruiti solo in “laboratorio”, in settori giovanili superspecializzati? La “cantera” del Barcellona potrebbe essere un esempio. Ma in una terra ribelle come la Catalogna che hanno di speciale le famiglie? Eppure tra i giovani blugrana dominano i colori multietnici. Tante domande, poche risposte e nessuna certezza. Il settore giovanile dell’Atalanta, che proprio in questi giorni si è rafforzato con l’arrivo di Maurizio Costanzi, un'”eccellenza” tra gli esperti di vivai calcistici, basti pensare che ha portato il Chievo a vincere il campionato Primavera. Quindi non si può dire che Antonio e Luca Percassi facciano poco per il settore giovanile, anzi hanno sempre dichiarato che si tratta. Intanto però l’ultimo fuoriclasse che è nato e cresciuto a Zingonia è Roberto Donadoni (classe 1963), inizio anni ottanta, forse Domenico Morfeo (classe 1976) ma in questo caso l’Atalanta declina ogni responsabilità perché il ragazzo aquilano è stato l’emblema del “genio e sregolatezza”, poi tanti buoni e anche ottimi giocatori . Ad esempio uno come Riccardo Montolivo (classe 1985) ha le stimmate del campione eppure gli manca qualcosa per diventare e poi al Milan lo hanno trasformato in mediano. Questo può significare che il talento viene sacrificato al rigore degli schemi tattici e alla forza fisica. I talent scout cosa guardano oggi prima di scegliere un ragazzino da portare in un settore giovanile professionistico ma anche della serie D? Se è piccolo di statura si informano, prima di tutto, se i genitori e magari i nonni sono alti e quindi sono convinti che crescerà, poi controllano se fisicamente è ben impostato con una corretta postura e, infine, se ha i piedi buoni. Per carità, non è affatto sbagliato ma la tecnica viene sempre dopo. Del resto gli istruttori, peraltro qualificati e preparati, sono quasi tutti laureati in scienze motorie e sportive magari non molto esperti del gioco del calcio. Consultate gli organigrammi dei settori giovanili professionistici, Atalanta compresa, e leggerete nomi sconosciuti, così come i manuali dei primi calci sono scritti e realizzati da docenti di educazione fisico-motoria. Certo, è anche vero che i grandi campioni ma anche giocatori professionisti si sono dilettati a scrivere le loro autobiografie, di solito lautamente retribuite, e solo pochi si sono cimentati con manuali di come si comincia a giocare a calcio, lasciando invece in mano la letteratura calcistica ai professori Isef. Probabilmente sarebbe opportuno un connubio tra i teorici e i pratici. Gli esercizi col pallone tra i bambini delle scuole calcio sono sempre pochi, eppure la prima cosa che chiedono è: “Mister quando giochiamo, quando facciamo la partita?”. E gli istruttori , quorum ego nel mio piccolo, rispondono: “Prima gli esercizi motori, poi il pallone” e vengono proibiti colpi di tacco, veroniche, dribbling e tutto ciò che fa spettacolo. Eppure mettere dieci ragazzini davanti ad un muretto e farli calciare di destro e di sinistro per dieci minuti non sarebbe male magari con ex calciatore come istruttore che spieghi loro come toccare il pallone d’interno, di esterno, di collo e così via. Ma chi lo fa ancora questo esercizio? Si preferiscono i “circuiti di destrezza” o skip con ostacoli o con capriole. E il regno del pallone dove sta? E poi non diamo colpe alle mamme se non nascono più fuoriclasse.