Insegno ai miei meravigliosi e imperfetti studenti l’amore per la scrittura, così gli faccio fare mille cose che a scuola non hanno visto mai, ma non per strabiliarli, anche se spesso le parole messe in fila sono un gioco di prestigio, piuttosto nell’idea di dargli una scialuppa quando gli sembrerà che non gliene va dritta una e che la propria barca sta andando abbastanza a picco nella schiuma dei giorni, affondando nel male del miele senza manco una piccola stella polare da guardare. Questo è quanto ho imparato in vita mia, passata interamente o quasi a viverla per metterla su un foglio, meglio se di carta. Che sia stato quando ho ascoltato il silenzio assordante di un amore perduto o il fragoroso suono di un rigore decisivo tirato sugli spalti o, ancora, le rare volte che mi ha preso la celeste incazzatura coi miei figli, oppure, di nuovo, quando qui al giornale non mi sono sentito abbastanza, qualsiasi cosa, drammatica o eccessiva, raccontarla per smezzarla, per ridimensionarla, fino ad arrivare all’ultima riga scoprendo ogni volta che in fondo non era così importante. E’ il diario, il mio quaderno giallo che compero alla Conad ad ogni inizio anno per poi perderlo al veglione.
Cos’è la scuola oggi? Parlo della mia materia, di certo non è insegnargli la grammatica drammatica perché c’è word che le doppie e le accaconlacca te le corregge giustamente e onestamente. Così oggi nella mia terza superiore, va detto una classe bellissima, gli ho fatto fare questo esercizio di un’ora per insegnargli il valore delle frasi, per spiegargli che non è il non fare degli errori di ortografia a rendere un testo bellissimo, ma l’essere onesti quando ci si mette sopra, il dire la verità, l’essere nudi, quello vale, tanto per se stessi, più o meno immensamente, parecchio per chi ti legge, incredibilmente, diventando d’un colpo e per sempre donne e uomini unici al mondo.
Quindi ho diviso la classe in due, coi banchi tutti in mezzo, dodici studenti da una parte e dodici dall’altra, seduti, ma pronti ad alzarsi per guardarsi dieci secondi dritti negli occhi (che non mentono) con il compagno della parte opposta se per entrambi la risposta alla mia domanda era sì. Cento quesiti. Da quelli leggeri come l’aria, “Vai in palestra?”, “Giochi a pallone?”, “Tieni all’Atalanta?”, “Tifi Milan?”, “Ami il mare?”, “Nuoti?”, “Sei andato a vedere la città d’origine dei tuoi?”, “Hai già preso l’aereo?”, a quelli profondi come il piombo che sta in fondo al mio lago, “Preghi?”, “Senti che c’è un dio?”, “Hai fatto sesso a caso?”, “Sei innamorato?”, “Hai baciato sulla bocca qualcuno che amavi?”, “Hai scritto almeno una lettera con la penna?”, “Litighi con tua mamma?”, “Odi tuo padre?”, “Hai menato duro qualcuno?”, “Ridi?”, “Piangi?”, “Fumi?”, “Ti fai le canne?”, “Bevi?”, “Ti sei ubriacato sabato sera?”, “Rubi?”, “Ti piace?”, “Ti è capitato di sentirti solo al mondo?”, “Sapresti stare un intero giorno senza il tuo cellulare?”, “Uccideresti qualcuno per avere un sacco di soldi?”, nel mio modo, complice, che lo sanno che tra noi resta lì e nessuno nessunissimo ha e avrà in futuro il permesso di entrare nel nostro calcio d’angolo di scuola.
I ragazzi hanno partecipato, prima piano piano, poi infilandosi dentro, quindi dentrissimo, al centro, a undici metri esatti dalla porta dell’anima che hanno in dote, senza paura di tirare cinquanta calci di rigore, dicendo addio all’istante e per sempre al timore di rivelarsi a me e agli altri compagni. Nella seconda ora gli ho assegnato un tema, “Il momento in cui vi siete sentiti veramente felici”, ad ora ne ho letti quattro, tutti mi hanno commosso, forti e unici, controvento, liberi e liberatori, super onesti, bellissimi, veri, da brividi. E la gran parte di loro ha portato il quaderno a casa. Per scriverne ancora, per disegnarci degli scarabocchi, ogni giorno, per trasformare il sale che hanno dentro in pane, che è poi la magia di un foglio e di una penna quando ci si accorge che sia fuori che dentro al momento è il deserto, come capita quando s’impara, come accade spesso e volentieri quando si sceglie di frequentare le proprie parole nuove, insomma di ascoltarne le nuvole.
Matteo Bonfanti
Nella foto: parte dei ragazzi della mia terza all’Engim, ragazzi che amo