“Sempre impeccabile, signor Bonfanti… Ha degli appuntamenti importanti questa mattina?”.
E le veniva da ridere, dolcemente, tanto con lo sguardo, mentre mi vedeva sulla porta in vestaglietta, spettinato e con ai piedi le ciabattone dei Simpson. “Il solito?”, mi chiedeva, e mi dava le sigarette e mi preparava il caffè doppio di ordinanza. E lì ci perdevamo a chiacchierare, spesso per delle mezzorate intere. Parlavamo di tutto, dalla sanità che in questi anni ha perso il suo cuore, così diversa da quella di quei tempi là, fino al sindaco, un uomo elegantissimo, passando per la Hunziker, arrivata di corsa con le figlie per prendere tre ghiacciolini rossi. Fulvia era piacevole, per me un appuntamento irrinunciabile, parecchio per via del modo, gli occhi negli occhi e un pizzico di ironia, qualcosa che a me faceva iniziare la giornata col piede giusto. Era una donna intelligente, sapeva mille cose, qualcuna raccontata da chi andava da lei a comperare i sigari, le Marlboro o le Camel. Ed era saggia, che ogni volta mi dava un consiglio su come crescere il mio secondo, Zeno, “che si vede lontano un chilometro che è un bel furbetto”. Per tutti una parola, la cortesia che col passare dei giorni diventa accoglienza, da mezzo secolo tra quelle mura, affinando alla perfezione la capacità di far sentire ognuno come a casa propria tra un cappuccino e una brioche al pistacchio grazie a una frase o a un piccolo e prezioso ricordo. Era del 1934, da giovane doveva essere molto carina, magra magra e dai lineamenti fini. Era forte, di una tempra dura, vigorosa e dall’immensa energia, qualità che le facevano nascondere benissimo la sottile malinconia che aveva in fondo al cuore per via di un figlio morto troppo giovane, “il mio fiore, signor Bonfanti…”. Mi mancherà, Fulvia, la mia Fulvia, che mi aveva persino difeso dai carabinieri, che si erano messi a camminare dietro di me vedendomi in braghini alle undici di un sette di dicembre, “non è un senzatetto, è un bravissimo giornalista, garantisco io”. Oggi sono andato al suo funerale, ma sono arrivato tardi e non sono riuscito a dare un abbraccio ad Attilio, suo figlio, a Barbara e a Luca, i suoi nipoti, le tre persone che l’amavano, accanto a lei in un lavoro che era da sempre la sua vita. So che dal paradiso Fulvia non se la sarà presa, avrà guardato giù e si sarà fatta la solita risata, “signor Bonfanti, la sveglia… Ne vendiamo di bellissime anche qui…”.
Matteo Bonfanti