di Marco Bonfanti
Il viaggio in serie D fa la sua seconda deviazione annuale e si dirige, il viaggio appunto, verso la capitale per assistere a Roma- Atalanta. In settimana si spera, noi i viaggiatori svagati, d’avere gli accrediti giornalistici che però non ci vengono concessi, e questo senza neanche averci visto in faccia, per dire. Ma ormai la macchina organizzativa si è messa in moto, così decidiamo di scendere ugualmente, vorrà dire che compreremo, come da bravi e solerti cittadini paganti, il biglietto. E così si fa.
Siamo noi tre, i soliti del Lecco, tra l’altro Beppe tiene pure alla Roma come si dovrebbe sapere, in più c’è anche Antonello, uomo dalle grandi trasferte, che il Lecco ci mancherebbe altro che lo vedesse.
Viaggio piacevole, gli argomenti non mancano tra politica, sport e storie vere. Si arriva così nella caput mundi e l’albergo è già prenotato. Pomeriggio di visita alla città eterna, di gente in giro ce n’era parecchia, e strade e vie e monumenti non mancavano. A Roma c’era pure una manifestazione che io ho chiesto almeno di vedere. Gli altri mi hanno accontentato, ma solo da lontano. Poi abbiamo saputo che c’erano stati degli scontri, cosicché il da lontano è diventato un loro merito.
E si fa sera e si arriva allo stadio. Tra noi come detto c’era anche Antonello, un mezzo maniaco della camminata sostenuta. Allo scopo di tenersi informato sui suoi lodevoli sforzi, ha pure un modernissimo contapassi, roba da sofisticata elettronica, perché i dati raccolti da quel pseudo orologio vengono poi rielaborati e riversati sul telefonino. Bene, una volta arrivati allo stadio il congegno conta già diciannovemila passi fin lì, e un mio assoluto sfinimento. Davanti agli ingressi ci viene detto però che la biglietteria è da tutt’altra parte, e si va e si ritorna e a me sembra di avere due pezzi di legno deambulanti anziché le preziose gambe di sempre. Sorvolando comunque su molti particolari di colore, eccoci dentro lo stadio, che è una cosa che mette i brividi a chi, come noi, è abituato agli spennacchiati campetti di periferia. Mi dico che è come avere un gatto per casa che vedi tutti i giorni e poi incontrare una tigre, che insomma un po’ gli rassomiglia, ma ha altre dimensioni e altra ferocia. E poi c’è la partita che la Roma vince agevolmente, giocando pure bene, con un gioco arioso, un possesso di palla costante e un’ammirevole presenza in tutte le zone del campo, pure le più laterali e periferiche.
Ma che cattura la mia attenzione e quella di Carlo seduto vicino a me, è la tifoseria atalantina, cui, con grande ammirazione, dedico questo mio odierno pezzo. I tifosi orobici saranno venticinque-trenta, non di più, quindi un esile puntino nella marea di folla che riempie lo stadio, non so bene quanta, ma tanta. Sono confinati, questi tifosi, in uno spazio angusto, ma ciò che rende particolare e ridicola la scena è che sono curati, accuditi e vegliati da un numero se non triplo, almeno doppio di stewart. I tifosi atalantini hanno solo uno straccio di bandiera, forse il resto gli sarà stato sequestrato, che sventolano in maniera pure minima, come se si vergognassero a mostrare quel misero stendardo a fronte agli innumerevoli vessili romanisti. A me, che dell’Atalanta non mi frega granché, ma che sono da sempre strenuo difensore delle minoranze oppresse, quel coraggioso gruppetto suscita un’immediata solidarietà da ultimo della classe. Sono circondato da romanisti ma, soprattutto nella seconda parte del primo tempo, in cui l’Atalanta attacca con una certa convinzione, fantastico che se i bergamaschi segnassero, mi giro e faccio un bel gestaccio a tutti i presenti. Insomma una sorte di immolazione, da eroe di una minoranza dimenticata e priva di mezzi. E sono lì già abbastanza convinto, che invece segna la Roma la rete del due a zero. Perché le grandi squadre fanno così: nel momento di difficoltà, con un bel contropiede, ammazzano la partita. E la Roma, che grande squadra lo è certamente, non si sottrae a questo copione già scritto.
Poi tutto, pallone compreso, rotola via fino alla fine. I tifosi bergamaschi saranno tornati a casa, ma mesti. Così così perché la partita era già segnata. E loro sono già salvi.
Noi la nostra salvezza l’abbiamo avuta mangiando pesce nel ritorno. Che poi, di riffa o di raffa il contapassi aveva abbondantemente superato i ventimila, E con tutti ‘sti passi, vuoi mettere la fame?
(FOTO TRATTA DA ATALANTINI.COM)