La notizia numero uno della settimana, l’amministratore delegato Luca Percassi che occupa il secondo scranno della governance del massimo campionato, rischia di finire in secondo piano di fronte alla numero due. Ovvero, si viene danneggiati pure stavolta, nell’incipit di un settebello d’impegni decisivo su tre fronti in altrettante settimane, perché si continua a contare poco, se non addirittura nulla. Premessa necessaria prima della contestualizzazione e di un lungo rewind: Gian Piero Gasperini è stato il primo a rimarcare che l’ennesimo episodio da moviola che ha affossato la sua Atalanta non deve suonare come un alibi, data la brutta prestazione. Sta di fatto che il Cagliari corsaro del furbissimo Walter Mazzarri non sarebbe mai riuscito a rompere il ghiaccio spianandosi la strada per il bottino pieno nemmeno per ipotesi, se il braccio destro largo e decisivo per il controllo a seguire di Gaston Pereiro sul primo svantaggio fosse stato sanzionato come da regolamento, visto che se la palla rimbalza dal petto o da un’altra parte del corpo è un’attenuante buona soltanto nella propria area per non farsi fischiare il rigore contro. Davanti si annulla e stop. E ci sarebbe pure da rivedere un contatto sospetto Lykogiannis-Zapata un minutino e mezzo prima del 2-1 definitivo dell’uruguaiano.
Sempre la solita solfa, che intervenga il Var oppure no. Punti persi magari perché lo si è meritato, però giocare così è come correre i 110 metri a ostacoli con un sacco di mattoni in spalla o nel marsupio. Nel secondo caso non se ne parlava neppure, l’arbitro Prontera era lì sul pezzo, figurarsi se si deve procedere al check, altra astrusità di cui non si riesce a comprendere il senso. I nerazzurri hanno una cultura sportiva abbastanza spiccata, salvo protestare a bocce ferme come quasi tutti e morta lì, perché non c’è mai un seguito. In Italia non paga, le cose non funzionano così. Percorrono ben altri binari. Serve peso specifico fuori, dietro le quinte, ai piani alti. Chi tiene le redini del mondo dei club è Claudio Lotito e alla sua Lazio un rigoricchio non lo nega mai anima viva. In sede tecnica il designatore arbitrale ti spiega il perché e il per come, lasciandoti con un palmo di naso, e via fino alla prossima. Le cose non funzionano così. Senza scomodare pietre di paragone prive di ragion d’essere come Calciopoli o il sistema Moggi che dir si voglia, nel Belpaese contano i rapporti di forza. Da sempre e in ogni ambito della vita, privata e pubblica, non solo nel pallone a livello professionistico.
Con la fresca vicepresidenza della Lega Calcio di Serie A in saccoccia, ora bisogna imparare a fare la voce grossa lontani da quello che il profeta della Bergamo della sfera a esagoni chiama il centocinque per sessantotto. Il campo è sovrano solo fino a un certo punto. La linea di demarcazione sono quelli persi sulla scia degli errori ripetuti della sala di regia o comunque delle interpretazioni sempre discutibili. Una ex regina delle provinciali che se la batte da big aggiunta non può lasciare nulla al caso, nemmeno nei rapporti istituzionali. In principio fu il possibile vantaggio di Berat Djimsiti contro la Fiorentina, annullato per la posizione irregolare di Duvan Zapata, uno che l’attrezzo manco l’aveva sfiorato, considerato attiva. Una sorta di fotocopia, poi, a dicembre con la Roma in una partita piena zeppa di episodi e polemiche: il 2-2 annullato perché l’autorete dell’ex Bryan Cristante sarebbe stata provocata dall’azione “impattante” del fuorigiochista José Palomino sulla “capacità dell’avversario di giocare il pallone, oppure semplicemente contendendogli il pallone” (sic, sempre le norme-guida).
Nella stessa allacciata di scarpe, il gol iniziale sembra viziato da una carica di Abraham sul nazionale albanese, un altro arto superiore (Karsdorp) su carambola da corner sullo 0-1 e la spinta di Ibanez sul Toro di Cali sull’1-3. Sono tre partite perse, 1-2 con mani prontamente ravvisato di Joakim Maehle con rimarchevole occhio di lince sul primo dei due penalty contro, 1-4 e infine ancora 1-2, tutte in casa dove il rendimento zoppica, 13 punti con 4 ko su 4 rispetto alla trentina piena fuori da imbattuti, il miglior record del massimo campionato. Passi coi viola pressoché all’inizio del percorso, quando le gambe e gli schemi erano in rodaggio, ma nelle altre due circostanze le decisioni cervellotiche del sestetto arbitrale hanno significato rallentamenti nettissimi sulla via verso gli obiettivi, la corsa al vertice ormai lontanuccio e la guerra per il quarto giro di corsa in Champions League di fila. A meno di non credere davvero di agguantarla alzando l’Europa League, scommessa un po’ azzardata oggi come oggi.
Certo, si può a buon diritto parlare di equilibri saltati, dell’incongruenza o della scarsa efficacia di certe scelte, leggi il 4-2-3-1-tris che ha fruttato 2 punti nelle ultime tre uscite giustificandosi solo con l’emergenza prima della recente pausa, oppure del calo netto delle prestazioni individuali e di squadra dopo i succulenti occhiali inforcati contro Inter e Lazio alla faccia della pletora di casi Covid-19. Ce la si può prendere con la sterilità offensiva dovuta soprattutto agli infortuni o alle indisponibilità a rotazione dalla cintola in su. Nel Belpaese, comunque la si voglia pensare, serve il peso politico. Benché il Gasp, alla vigilia dell’inopinato scivolone, abbia sorriso di fronte alla domanda a tema, in sede di complimenti all’AD per la nuova carica, definendolo “persona equilibrata e capace rispetto alle problematiche del nostro mondo” . Il chiagni e fotti sarà estraneo alla nostra cultura pragmatica da bergamaschi dediti al lavoro a testa bassa e aggrappati a valori incrollabili, ma le sviste arbitrali alla resa dei conti sono anche soldi in meno in saccoccia, a obiettivi sfumati per colpa dei trappoloni come i suddetti. Se non chiederemo al figlio presidenziale di urlare, alzare la manina si può e si deve. Per il bene della squadra e del club. La partita più importante si sta disputando in Lega. E non ci si può permettere di perderla, forse nemmeno di pareggiarla.
Simone Fornoni