«Che poi fare il terzino è il ruolo più brutto del mondo: tu e quella maledetta riga del fallo laterale, su e giù, per novanta minuti a correre nella stessa direzione, senza pensare. Ma ero il peggiore della squadra e i mister mi mettevano lì. Come si fa quando si va a giocare il martedì sera con gli amici: quelli che non sono tanto capaci finiscono dietro, in fascia, spesso a sinistra. Quelli bravi stanno in mezzo: ad anticipare il centravanti o a dettare i ritmi oppure a far gol. E io ho sempre avuto compagni fenomenali».
Pensieri e parole di Luca Turani, classe 1977, per tutti Turfeo, graditissimo ospite mercoledì mattina della nostra redazione. Vent’anni di calcio bergamasco raccontati a perdifiato, nel suo modo, dalla difesa all’attacco palla al piede e alla velocità della luce, alla faccia dell’allenatore in panchina. Il tecnico vorrebbe che i quattro in difesa non si sganciassero mai, ripete che per gli assist ci sono le ali che hanno più fantasia. Ma Turfeo ha in mente la testa biondissima del Peso, macina metri, arriva sul fondo e fa il cross. Pesenti si stacca da terra, resta un attimo in cielo e mette il pallone nell’angolino. Segna e inizia la festa, quella della compagine più forte di sempre, la Tritium allenata da mister Mangia, banda di campioni che metteva sotto chiunque incontrasse, anche compagini di categorie superiori.
Ma lasciamo per un attimo da parte le favolose stagioni di Trezzo d’Adda. Perché per chi ama il calcio bergamasco Luca Turani è un’occasione troppo ghiotta: bisogna chiedergli tutto, partendo dal principio, da quando sul campo a sette di Valbrembo inizia la storia calcistica di uno dei giocatori più amati del nostro movimento. «Ero piccolo piccolo e non so perché ero arrivato al primo allenamento per ultimo – sorride Turfeo che è un ragazzo dalla simpatia contagiosa, una delle rare persone illuminate dalla felicità -. Eravamo tantissimi. Gli allenatori mi vengono incontro e mi dicono che la squadra è al completo. Mi metto a piangere a dirotto, loro si commuovono e fanno uno strappo alla regola, dicendomi di restare: quell’anno faccio 83 gol! Dopo qualche tempo sono il più forte del paese. Quelli di Valbrembo sono anni bellissimi. Mi sembrava di essere dentro Holly e Benji. Conoscevamo i ragazzi delle altre squadre, le loro qualità, quanto erano temibili. E passavamo il tempo a parlarne, proprio come nel cartone animato giapponese che guardavamo in televisione il pomeriggio. Ci immedesimavamo, vivevamo le stesse emozioni».
Luca Turani, per i pochi che non lo conoscono, è così: racconta e gli viene da ridere, sempre con l’autoironia dei forti. Che da ragazzi, all’inizio degli anni novanta, finiscono a giocare nel Leffe. «Eravamo uno squadrone… di scappati di casa. Negli Allievi vincemmo il titolo italiano in un’incredibile doppia finale contro la Lodigiani. Loro in avanti avevano la coppia formata da Di Michele e Stellone, noi Zonca, che per tanti anni ha fatto il cuoco al Circolino. Poi c’era Giuseppe Biava, che era fortissimo, ma giocava esterno alto, in un ruolo molto diverso da quello che lo ha reso famoso. Dopo un ko interno dove non ci avevano mai fatto vedere la palla, al ritorno facciamo la partita della vita, vinciamo 3-1 e ci laureiamo campioni d’Italia. Segno anch’io. E’ la prima grande soddisfazione calcistica della mia carriera».
Dalle giovanili al meglio del calcio dilettanti. A diciannove anni sei già alla Fiorente, in Eccellenza, la seconda squadra di Bergamo. «In quella società ho passato otto stagioni fantastiche. Al comando c’era il Cavalier Pezzoni, un uomo dalla passione straordinaria, diverso da alcuni presidenti che si vedono in giro adesso. La sua parola aveva grande valore. Manteneva sempre le promesse, ti diceva che ti dava un compenso e ti pagava tutto, fino in fondo. Era un uomo d’altri tempi. Al suo fianco il diesse Enrico Vecchi, un dirigente a cui sono da sempre legato, straordinario conoscitore del mondo del calcio, bravissimo a capire gli umori della squadra, un martello, ma anche una persona molto simpatica. Nel 2003-2004 vinciamo il campionato. Già promossi, a Ponte, gioca il Bocia che faceva parte della nostra rosa. Pronti via e Claudio va in porta col pallone, fa sedere il portiere e appoggia la palla in rete: segna ed è l’apoteosi. Col Bocia mi sono divertito parecchio. Era inverno, faceva un freddo cane, lui arrivava al campo in braghette e zoccoli. Non faceva una piega. Io pensavo all’aria gelida sulle sue gambe e mi venivano i brividi. Comunque Claudio è uno che fa gruppo, scherza, ride e negli allenamenti fa il suo, senza tirarsi indietro. Tornando invece a Pezzoni, mi piace raccontare cosa ci regalò per il salto in D: una vacanza ad Ibiza. Fui l’unico a non andarci. In quel periodo avevo diversi esami dell’università…».
Pochi mesi e finisci in televisione. «Mio zio manda una mail a Mediaset e mi fa partecipare al provino di Campioni a Milano. Lo passo e finisco a Milano Marittima. Gioco la partita e gli organizzatori mi dicono che sono stato preso. Subito chiamo Vecchi, gli racconto tutta la storia e lui s’incazza di brutto, riempiendomi d’insulti. Torno a Bergamo e vado da Pezzoni. Lui, con la solita signorilità, mi dice che bastava glielo dicessi. Poi mi dà la lettera di svincolo, lasciandomi andare».
Capitolo Cervia. «Non era una squadra, ma qualcosa di diverso: calciatori e attori televisivi insieme a farsi riprendere dalle telecamere. Eravamo una decina di giocatori veri e propri, il resto erano personaggi. Jefferson, ad esempio, la nostra stella brasiliana: agli autori di Campioni serviva la storia strappalacrime, quella dell’emigrato in Italia, in cerca di fortuna, che diventa ricco e famoso col pallone. Ma lui a calcio non aveva mai giocato. Una volta gli ho chiesto qualcosa sulla sua carriera, lui, divertito: “Qualche partita in cortile”. Per quanto mi riguarda, la mia avventura inizia male. Mi rompo il collaterale e vengo eliminato per rientrare nel programma una volta guarito dall’infortunio. Inizialmente, però, Campioni si rivela un flop. Corre voce che potrebbero chiuderlo da un momento all’altro. E, poi, mi arriva una telefonata da Trezzo d’Adda: offerta irrinunciabile dalla migliore società dell’intero panorama del calcio dilettanti. Così torno e mi dimentico del Cervia, di Graziani e di Mediaset».
Ingaggiato da una società in fortissima ascesa all’apice della tua carriera. Che anni sono stati quelli della Tritium? «Fantastici. La triade formata da Ghezzi, Comotti e Mantegazza non ci faceva mancare mai nulla. Eravamo in Eccellenza, ma la società era organizzata in modo professionistico. Ad ogni livello. Giocavamo in Valtellina e ci portavano due giorni prima in ritiro a Sondrio. La domenica nello spogliatoio c’era ogni cosa che volevamo: miele, marmellate, integratori, fette biscottate, frutta, rigorosamente a buffet. E poi che giocatori: Dionisi, Dall’Igna, Borghetti, Daldosso, i due Bortolotto, che in questo momento saranno già a far festa a Milano Marittima, e poi Giorgio Pesenti, un attaccante che avrebbe potuto tranquillamente giocare nei professionisti. Ma il Peso a Trezzo d’Adda prendeva la bumbazza vera e stava troppo bene per tentare il grande salto».
Bomber Pesenti, il tuo personale ritratto. «Calcisticamente un animale: forza fisica impressionante e muscoli incredibili, senza mai aver alzato un peso. Movimenti da grande attaccante, leader naturale dello spogliatoio. Con lui ci si diverte anche fuori dal campo. Ha un’impresa edile e una volta l’ho accompagnato a lavorare. Doveva costruire un muro. Si è messo, io gli davo una mano, ma ero più che altro di ostacolo. Dopo un quarto d’ora mi ordina di sedermi e di mettermi a guardare, nel suo modo: allegro e ironico, sempre con qualche porcone. E lui in quattro e quattro otto finisce il lavoro. Una forza della natura. Quest’anno ci ho giocato contro, io nel Longuelo, lui alla Voluntas Osio. Nonostante tutti gli infortuni alle ginocchia, resta un fenomeno».
La Tritium e i suoi allenatori. Quali ti sono rimasti nel cuore? «Sembrerà strano, ma a me dei tanti mister che ho avuto quello che ricordo più volentieri è Magrin. Ci ha preso in corsa, durante una stagione dove ci andava tutto storto. Avevamo il morale sotto i tacchi, Marino ci ha rimesso in piedi, facendoci divertire. Magrin è uno straordinario oratore, ci raccontava la sua vita, anche nella pausa tra il primo e il secondo tempo. Ed era capace di coinvolgere ogni ragazzo del gruppo. E poi i suoi allenamenti erano folli: passavamo interi pomeriggi a fare rovesciate. Alle volte ci fermava, partiva sulla fascia, crossava, correva a centro area, saltava di testa ed esultava, gridando: “Marino Magrin: 1-0. Palla al centro”. Era un uomo divertente, spassosissimo».
Nella tua Tritium è nata la stella Devis Mangia, attuale mister dell’Italia Under 21, vicecampione d’Europa. «Un tecnico fenomenale, ma con un bel caratterino. Con lui anche undici mezze seghe possono diventare una squadra fortissima. Perché durante gli allenamenti insegna calcio, propone esercitazioni mai viste, tatticamente è un maestro: ti fa ripetere i movimenti del suo gioco fino all’esasperazione. E la domenica vai a duemila all’ora perché devi andare a duemila all’ora. E sai sempre cosa fare, anche perché Devis ha un’incredibile conoscenza degli avversari. Ti spiega come prenderli, come annullarli. Vive per il calcio e così devono fare i ragazzi della sua formazione. Con lui ci allenavamo il martedì, doppia seduta il mercoledì, il giovedì, il venerdì e il sabato mattina. Se c’era la Coppa Italia in settimana si ripartiva subito il lunedì e via fino alla domenica dopo, senza mai una pausa. Ed eravamo in serie D! Ma se le cose cominciano a girare male, ecco allora uscire forse l’unico suo difetto; fatica a trasmettere serenità alla squadra e diventa imprevedibile. Anche a Palermo è andata così. Era criticato per via di alcune sconfitte, si è presentato in sala stampa col panettone, dicendo ai giornalisti che lui al panettone ci era arrivato. Quella scenetta gli è stata fatale, Zamparini l’ha cacciato. Ma certi errori, credo, ti fanno crescere e ti arricchiscono di esperienza».
Fossi il presidente di una società di Serie D, chi chiameresti in panchina? “Senza dubbio Stefano Vecchi che ho avuto, sempre a Trezzo d’Adda, nel 2009-2010, l’anno del grande salto dalla Serie D alla C2. E’ un mister preparato, intelligente ed equilibrato. Anche lui lavora molto sulla tattica, ma è un fenomeno nella gestione del gruppo. Con lui ho conosciuto la tribuna, ma lo reputo il migliore. Quell’anno c’era la regola dei cinque giovani sempre in campo. Giocavano sempre i vecchi più forti, io, per la prima volta, non ero quasi mai titolare. Ho fatto dieci tribune di fila e devo ammettere che si soffre tanto. Perché la domenica non scaricavo l’adrenalina che avevo in corpo e mi restava addosso. I compagni festeggiavano le vittorie, ma io non le sentivo mie. Comunque stravinciamo il campionato e il presidente mi chiama».
Finisce un grande amore? «No, io alla Tritium sono ancora legato, addirittura ho la “T” e lo scudetto azzurro tatuati in piccolo sul corpo. E poi Ghezzi mi voleva tenere anche tra i professionisti. Era tutto fatto, ma esce un’altra regola dei giovani: i baby in rosa devono essere tanti quanti i “vecchi”. E io, che già non ero titolare in D, vengo giustamente svincolato, lasciato libero di trovare un’altra squadra».
Colognese e Pontisola, ancora in Serie D, e si arriva al 2012-2013, quando sorprendi tutti: uno dei terzini più forti di tutta la Bergamasca ingaggiato dal Bergamo Longuelo, squadra di Seconda che ha come obiettivo una salvezza tranquilla. Come è accaduto? «E’ capitato che il dottor Ventura, a cui sono legato perché è il medico della Tritium, mi ha proposto un contratto a tempo indeterminato alla sua Athena. Io non ci ho pensato neppure un minuto e gli ho detto sì, perché ho 35 anni, sono alla frutta e da un anno sono diventato pure papà. E poi io sono uno sportivo, ma non sono un appassionato di calcio, non ho neppure una squadra del cuore. Gufo solo Elio Gustinetti, mi piace sapere che sta perdendo. Per quest’anno sognavo di giocare a pallone a sette con i miei amici il sabato, una volta la settimana. E la domenica passarla con la mia famiglia, andare dai miei a mangiare, sciare, correre la mattina presto, stare a giocare con Leonardo al parco. Ho pensato: ho 35 anni, sono a metà della mia vita, godiamocela».
Invece arriva la telefonata del presidente Cugini e inizia per Turfeo un’altra avventura calcistica meravigliosa, culminata con l’inaspettato, ma meritatissimo approdo del Bergamo Longuelo in Prima categoria. «Con i dirigenti del Longuelo sono stato subito chiarissimo. All’Athena lavoro fino alle nove di sera tutta la settimana. Quindi gli ho detto che non potevo fare gli allenamenti. Loro mi hanno spiegato che non c’erano problemi. A fine estate sono andato a conoscere i ragazzi del gruppo e mi sono subito piaciuti. Mi sono detto: ci provo, corro tre volte alla settimana – faccio dai quindici ai venti chilometri ogni volta – e il mercoledì pomeriggio mi alleno col Pontisola a Valbrembo, il mio paese. Io e il diesse Vecchi a fare giri di campo, chiacchierando come sempre».
Campionato da urlo in un girone, il B, con tante squadre attrezzate per vincere. «E mi hanno pure cambiato ruolo, da terzino sinistro a centrale difensivo, un ruolo fantastico, dove non si corre nemmeno. A Longuelo siamo partiti per fare una stagione tranquilla, senza pretese. Con il passare delle giornate e dopo le sfide contro le formazioni più forti, penso ad esempio a quelle con la Pradalunghese e la Voluntas Osio, ci siamo accorti che potevamo anche salire. Così è accaduto. Devo dire che a Longuelo ho trovato un ottimo mister, Frigeni, che mi ha subito scelto come leader della difesa, e alcuni ragazzi fortissimi, che potrebbero giocare tranquillamente in categorie superiori. Parlo di Scarpellini, di Pasquinelli, di capitan Arrigoni che da centrocampista ha fatto la bellezza di undici gol. Sono giovani intelligenti: mi seguono, contano sulla mia esperienza, mi danno fiducia. L’anno prossimo sarò ancora lì, in Prima. Punteremo a salvarci, guai a pensare diversamente».
Com’è il livello in Seconda avendo giocato tanti anni in Eccellenza e in Serie D? «Non c’è molta differenza. La regola dei giovani ha livellato il calcio verso il basso. La mia carriera ne è un po’ la prova: sono solo un gran corridore ed ho sempre giocato nelle maggiori categorie dei dilettanti».
Il tuo pregio. «Sono uno sportivo. Non bevo, non fumo e mi accontento di poco. Se il Bergamo Longuelo arriva in Serie A, devi promettermi che smetti con quelle maledette sigarette».
Il tuo difetto. «Non lo faccio apposta, ma mi viene sempre da chiamare la palla agli avversari. In carriera per questo motivo ho rischiato di prenderle parecchie volte, persino da Salandra che siamo amici. Sigoli, ai tempi della Fiorente, in allenamento, mi disse: “Un’altra volta e ti entro”. Un minuto dopo gliela chiamo, viene a prendermi e mi dà un calcio sulla caviglia che si sloga. A Ghisalba, invece, mi hanno aspettato fuori. Racconto: Vivarelli al limite dell’area, io lo vedo e gli urlo: “Viva, uno-due?” e lui me la passa quando è a due passi dalla porta. Occasione d’oro sventata, con me che riparto palla al piede verso la metà campo avversaria. A fine gara erano neri. Giustamente. Mi capita così, anche ora, in Seconda, è più forte di me. Un po’ meno perché non conosco i cognomi di tutti gli attaccanti avversari…».
Con Luca Turani ci sarebbe da scrivere un libro. E se lui lo vorrà, siamo pronti a farlo, magari tra una decina d’anni, a carriera finita. Gli episodi sono tantissimi e sempre bellissimi, raccontati in quel modo simpatico, autoironico e allo stesso tempo dolce, alla Turfeo.
Bisognerebbe parlare ancora del mitico Sciaudone, che s’inginocchiava di fronte a Pesenti, implorandolo di fargli tirare le punizioni dal limite; oppure dei mitici tifosi della Tritium, “I Fanatici”; o di Cavalleri della Colognese, presidente che deve ancora a Turfeo e a tanti altri giocatori alcuni rimborsi dell’ormai lontana stagione gialloverde. O di Magoni, tecnico bravissimo con cui è facile lavorare bene, o, ancora, del mitico scambio di maglia tra Carlo Taldo e uno sconcertato David Trezeguet.
Ce ne sarebbe, insomma, per riempire altre cinque pagine. Vi promettiamo quindi una seconda puntata, magari a giugno 2014. Ma prima di congedare il mitico terzino sinistro, l’ultima richiesta: il suo personale Top 11. Eccolo (4-3-1-2): «In porta Merati del Longuelo; difesa tutta targata Tritium con Dionisi, Dall’Igna, Cozzi e Stam Terzi. A centrocampo metto in mezzo Borghetti, mezz’ala sinistra Daldosso, mezz’ala destra Enrico Bortolotto. Trequartista Roberto Bortolotto dietro Pesenti e Salandra. Posso fare anche la panchina?».
Certo… «Portiere di riserva Scotti della Trevigliese, poi Bonfanti, ex Colognese, Sciaudone della Tritium, Stucchi e Crotti del Pontisola e Ciccio Guerrisi della Fiorente».
Non c’è Turani. «Avete letto i nomi? In una rosa del genere Turfeo, al massimo, sta in tribuna a godersi lo spettacolo».
mercoledì 26 Giugno 2013